Il Coach è Agile?

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L’Agilità è un “mindset” definito ampiamente nel suo manifesto e soprattutto dalla pratica di oltre vent’anni di attività.

Il coaching è …?

Io lo definisco come un “viaggio” in cui il coach, attraverso domande, permette al coachee (il cliente) di costruire la propria strada verso il suo obiettivo. Una strada realizzata utilizzando risorse già presenti nel coachee. Se poi avete voglia di approfondire potete leggere il mio articolo "Cos'è il coaching".

Ma da “agilista” convinto ed ora da coach professionista ho subito notato un forte parallelismo tra i principi dell’agilità espresse nel manifesto Agile e le competenze del coach.

Iniziamo quindi questo viaggio con l'obiettivo di mettere a confronto questi due mondi apparentemente distanti.

La priorità dell’agilista è soddisfare il cliente attraverso rilasci frequenti (si parla qui tanto di software quanto di altri ambiti). Il coach ha come timeframe la sessione al termine della quale, per definirla di successo, l’obiettivo deve essere raggiunto e le azioni per arrivarci devono essere identificate. Un rilascio insomma. Solo così il cliente è soddisfatto.

Il secondo principio parla di antifragilità: i cambiamenti sono i benvenuti. Un coach è antifragile? Ovviamente lo è. Un coach si “svuota” prima e durante la sessione per seguire, in uno stato di flusso, il coachee. Ma il coachee cambia spesso direzione, rotta, per costruire la sua strada deve guardare in varie direzioni. Il coach non può quindi avere un percorso predeterminato in mente ma deve adeguarsi e adattare le proprie domande in base a quanto emerge.

Il coach ed il coachee sono immersi in una partnership che coinvolge tanto il fruitore, il coachee o cliente, quanto colui che lo segue, il coach. Entrambi sono coinvolti.

Un altro aspetto fondamentale della relazione di coaching è la comunicazione: diretta. Comunicare senza premesse, senza giri di parole, semplice. Il coach porta le sue domande in base al momento. Non pensa al dopo o al prima, sta nel presente, ascolta i ragionamenti e le emozioni del coachee e in quel momento costruisce la costruisce. Allo stesso modo l’agilità si occupa di ciò che serve massimizzando il lavoro non svolto. E’ un concetto interessante e potente, non mettiamo energie nello sviluppare qualcosa che servirà, forse, dopo perché dopo potrebbe non servire più. Nella progettazione Agile quindi ci si concentra sui task che appartengono al ciclo di sviluppo in corso... La similitudine è evidente.

Il coach tende sempre all’eccellenza rispetto alla sua tecnica. E’ portato, anche dal codice etico della propria didattica di riferimento ad una formazione continua e ad un continuo processo di mentoring finalizzato a migliorare le sue stesse tecniche.

Possiamo quindi dire che la relazione tra Agilità e Coaching è forte ma dove può portarci questa consapevolezza?

Nelle aziende dove si introduce l’Agilità ci sono grandi cambiamenti organizzativi, di relazione e di funzione.

E' sicuramente importante avere esperti Agili che aiutino i team a lavorare al meglio , ma lo sviluppo delle competenze emotive e il supporto al cambiamento sono .

Il coach professionista che conosce i concetti dell’agilità può aiutare le persone a riscoprire le proprie risorse e a metterle al servizio degli obiettivi propri o aziendali rispetto al cambiamento in corso.

Il coaching come strumento per la leadership agile (parte 2)

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Breve Recap

Nella prima parte abbiamo visto come far evolvere lo stile di leadership parlando di giudizio, stato di flusso, interferenze. Abbiamo quindi analizzato aspetti problematici e desiderata. In questa seconda parte vedremo come poter modificare lo stile di leadership.

Cambiare il modello di leadership

L’armonia tra i due sé si ha quando la mente è calma e focalizzata, Goleman lo definisce lo stato di flusso. Solo allora si può raggiungere una performance ottimale. 

Lo psicologo umanista Abraham Maslow ha chiamato tali momenti “esperienze culmine”. Nella sua ricerca sulle caratteristiche comuni tra le persone che hanno vissuto simili esperienze, riferisce le seguenti descrizioni: «Si sente più integrato» [i due sé diventano uno], «si sente un tutt’uno con l’esperienza», «si sente al culmine delle sue potenzialità», «pienamente funzionante», «a pieni giri», «senza sforzo», «libero da ogni blocco, inibizione, cautela, paura, dubbio, controllo, autocritica, freno», «è spontaneo e più creativo», «più presente», «non si sforza, non ha bisogni, non ha desideri… si limita a essere».  In sintesi, “armonizzare i due sé” richiede che la mente venga rallentata. Calmare la mente significa meno pensiero, calcolo, giudizio, preoccupazione, paura, speranza, sforzo, rimpianto, controllo, agitazione o distrazione. La mente è quieta quando è ferma nell’ora e nel qui, e attore e azione sono un tutt’uno.

La nostra mente sa creare la realtà che vediamo e questo ormai è la stessa fisica quantistica che ce lo dimostra spiegandoci la dualità delle particelle, l’entanglement (ampiamente dimostrato), il principio di indeterminazione di Heisenberg.

Ecco quindi che anche il leader può creare una realtà diversa partendo da una diversa rappresentazione mentale delle persone che ha davanti, guardandole con “occhiali” diversi, o a dirla alla modalità quantistica facendo collassare diversamente la funzione d’onda che crea la nostra realtà a partire da “tutte le realtà possibili”.

Il Coaching

Come il coaching può essere d’aiuto nella gestione della leadership e della relazione tra leader e componenti del team?

Il coach è un facilitatore che, attraverso accordi ben definiti col proprio cliente, lo aiuta a mettere a fuoco gli obiettivi da raggiungere. Obiettivi che sono propri del cliente e azioni, anch’esse messe a fuoco nel corso della partnership di cui il coach è un professionista e in cui il cliente è l’unico responsabile dell’attuazione. Il coach nel corso del processo (una o più sessioni) utilizza una modalità maieutica, estraendo e mettendo in luce ciò che già c’è e creando un rapporto di fiducia in cui il coach deve lasciare spazio.

Il coach aiuta quindi il cliente a creare un ponte tra dove è ora e dove vorrà essere alla fine della sessione, la direzione è il futuro. Si lascia quindi l’analisi del passato ad altre professionalità.

Il coach non è un counselor, non è uno psicologo, non è un mentore e neanche un consulente.

Mi piace pensare al percorso di coaching come il disegno di una mappa del tesoro che si era persa. Il tesoro è sempre lì, dov’era, ma il cliente ha perso la capacità di vederlo e quindi di trovare la strada per raggiungerlo. Il coach non conosce la strada, ma sa prendere per mano il coachee, un passo per volta, facendogli evitare buche troppo profonde in cui è possibile cadere e tenendo accesa una luce che illumina il futuro.

Insieme il cliente ricostruisce una mappa che poi sarà compito e responsabilità del coachee utilizzare per ritrovare il tesoro.

I concetti base del mindset di coaching possono essere riassunti in: fiducia, capacità del coach di mettere a tacere le sue interferenze (creare spazio) e quindi presenza sul coachee, ascolto, etica, relazione empatica, capacità di conduzione attraverso domande, facilitare l’emergere della consapevolezza, orientamento alla crescita, identificazione di azioni volte a raggiungere l’obiettivo desiderato, sensibilità verso il bene comune (Ubuntu: io sono in virtù di ciò che tutti siamo).

Mettendo tutto a fattor comune

Il leader “evoluto” si sente parte del team stesso in una modalità agile. Valorizza le persone e le tiene al centro del processo circondandosi di persone tecnicamente più competenti di lui in modo da creare quello spazio per potersi concentrare sull’aiuto, per spostarsi verso il coaching.

Il leader vuole tenere le persone in uno stato di flusso non solo perché così i team sono altamente performanti, ma perché le persone stanno bene e quindi, in un’ottica collettiva, tutti stanno meglio, siamo in un’ottica di benessere comune.

Gestisce i rapporti con la fiducia (il Trust) al posto del controllo e dove possibile si annulla affidandosi al team, credendo nelle persone ma anche nella sinergia tra tutti. Il leader deve saper togliere le proprie interferenze create dal sé controllore (Gallwey), deve creare spazio dentro di sé per ascoltare l’altro.

Il leader non solo agisce da coach quando serve, mettendo in atto sessioni uno a uno o di team, ma mette in campo tutte le competenze del coaching mindset nella relazione. Relazione che va creata andando a formare team auto organizzati, in cui non si utilizza la delega come panacea, ma si valorizzano le competenze di ciascuno attraverso un modalità di ascolto.

Qui cogliamo però una differenza rispetto al coach. Il leader può essere parte anche indiretta dell’obiettivo. Un esempio, in un team due persone non comunicano e quindi le performance del team stesso degradano. Il leader può anche decidere di offrire sessioni di coaching a entrambi al fine di migliorarne la comunicazione. In questo caso però i coachee non sono gli unici ad avere un vantaggio nel raggiungimento dell’obiettivo, il team ed il leader stesso ne traggono vantaggio. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare coach esterni in modo da non avere conflitti di interesse.

Il leader deve necessariamente mettere in atto un ascolto attivo attento alla comunicazione e alle forme non verbali. Sa cosa ascoltare e  cosa filtrare. Interroga con stupore potenziando le risorse del team e lasciando andare le credenze limitanti. Il leader considera l’interlocutore con una visione olistica, vede i suoi valori le sue credenze rispettandole.

Il leader pone domande anche scomode mirate ad evocare la consapevolezza. Esplora il pensiero dei suoi collaboratori per mettere in luce le risorse che serviranno a bypassare un ostacolo per rimodellare schemi mentali troppo basati sul sé 1 di Gallwey.

Aiuta quindi tutto il team a crescere e organizza frequenti retrospettive (in un’ottica Agile) in cui celebrare il lavoro svolto, spiega i key points e propone come utilizzare positivamente i fallimenti come opportunità di apprendimento.

Le tecniche di coaching applicate a queste tipologie di leader servono per una presa in carico a tutto tondo del team. La performance è del team , la crescita, la scelta della direzione da seguire  per il miglioramento continuo sono concetti che il leader porta a livello di gruppo, da uno a tutti, mantenendo però una visione olistica e un concetto di tutti come uno.

Il leader agisce quindi come coach nel senso del bene comune creando un substrato di condizioni in cui le persone possono germogliare da sole.

Conclusioni

La parola chiave è lasciare, tagliare fuori il sé 1 comunicando direttamente con il secondo sé definito da Gallwey così come il leader per stabilire una nuova relazione tra pari deve riferisci al suo bisogno interiore di cambiamento, questo è l’avvio del cambiamento.

I pinguini di P. Kotter lasciano non solo un iceberg diventato casa loro, ma anche un modo stabile di vivere, lo avevano imparato nel tempo ma non gli apparteneva davvero.

Reinventare il rapporto professionale tra team e leader ponendosi in una modalità leader-leader e introducendo un’ottica di interdipendenza in un contesto di mutuo aiuto, questa è la direzione.

I componenti del team sono leader di se stessi in una relazione basata sulla fiducia.

Le tecniche di coaching o meglio, il mindset del coaching, è strumento fondamentale per il leader nelle relazioni day-by-day al fine di implementare una comunicazione basata sull’ascolto. 

Il cambiamento quindi si espande da cambiamento interiore del leader a uno esteriore, come fuori così è dentro potremmo dire utilizzando la legge di corrispondenza di Ermete Trismegisto.

Bibliografia

  1. Giuffredi “L’onda del coaching”
  2. Marquet “Turn the ship around”
  3. Goleman “Intelligenza Emotiva”
  4. Gallwey “The inner game of tennis”
  5. Von Sharmer “La teoria U”
  6. D’anna “La scuola degli dei”
  7. Gilmore “Alice nel paese dei quanti”

Il coaching come strumento per la leadership agile (parte1)

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Introduzione

Lo stile di leadership, fortunatamente, sta cambiando. Si passa da una modalità di “command and control” ad una di “trust”. Il cambiamento, tanto necessario quanto etico, è sicuramente stato facilitato dall’ emergere di nuove metodologie di organizzazione del lavoro e di consapevolezza, tra queste l’Agilità ed il coaching.

Il leader non è solo colui che gestisce il team e da’ il ritmo, ma deve utilizzare le leve dell’intelligenza emotiva per entrare in relazione con gli altri, puntando al potenziamento dell’altro. Il leader-coach lavora col singolo ma nell’ottica del gruppo.

Di seguito vedremo come l’evoluzione della leadership può essere agevolata dall’utilizzo di tecniche di coaching per condurre i gruppi Agili  verso un livello di interdipendenza così come dettagliato da John Whitmore nel suo libro Coaching.

La leadership: verso quale cambiamento?

Se vogliamo vedere come un cambiamento di approccio nello stile di leadership abbia delle conseguenze positive, possiamo leggere il libro di D. Marquet “Turn the ship around”. In questo libro l’autore, ex comandante di sottomarini nucleari americani, si rende conto che il paradigma del “command and control” tipico dell’ambiente militare può essere sovvertito. Attraverso una “rieducazione” dalla forma di comunicazione il comandante riesce a far emergere le ottime competenze del suo equipaggio facendolo diventare un alleato. Marquet implementa un modello leader-leader in cui l’empowerment dell’equipaggio  non è avulso dall’emancipazione, dalla liberazione e dal riconoscimento delle capacità del singolo, della sua creatività e del suo valore come persona.

In sostanza empowerment è “un movimento da” e non “un movimento per”: un movimento da dentro e non uno per arrivare subito a qualcosa. Diverse altre fonti autorevoli tra cui Goleman, Kahnemann e Gallwey ci parlano di intelligenza emotiva, stato di flusso, dialogo interiore e interferenze. Von Sharmer attraverso la sua teoria U ci conduce in un viaggio per reinventare il nostro futuro lavorando su temi che possiamo trovare anche nel coaching.

Abbiamo quindi molte tecniche e conoscenze su come funziona l‘individuo e il gruppo.

I tempi, nelle aziende, sono sempre più veloci. Ciò che tecnologicamente è attuale oggi è vecchio tra qualche mese quindi è importante avere team performanti.

Il leader però può non essere più quella figura “grigia” che comanda le persone avendo in mente solo gli obiettivi aziendali ed il processo come unico indicatore di risultato.

Come può cambiare il suo stesso stile e cosa può fare sugli altri? Con quali effetti e soprattutto quali tecniche utilizzare?

Possiamo seguire diverse metodologie e mindset ma ritengo che l’agilità ed il coaching se messi a fattor comune possano fornirci un insieme di tecniche e principi per far evolvere il leader verso una modalità interdipendente in cui i team sono auto organizzati, il leader è anche coach, le persone sono al centro e ci si sposta verso un concetto di intelligenza collettiva tutto all’interno di uno stato di flusso.

Lo stato di flusso

Lo stato di flusso è un concetto spiegato molto bene da Daniel Goleman (psicologo, giornalista e scrittore statunitense) in un bellissimo video che è possibile trovare su youtube “The art of managing with emotions”. Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti (antifragile), attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene!

In questo stato le persone sono quindi antifragili: di fronte all’imprevisto non diventano più resistenti facendo comunque “muro”, ma evolvono, cambiano, si adattano tentando di vedere il cambiamento come opportunità.

Anche Paul Kotter ce lo mostra nel suo divertente cortometraggio sui pinguini, anche questo reperibile su youtube e intitolato “Our iceberg is melting”. Kotter vuole raccontarci le fasi principali per introdurre un cambiamento. In questo video emergono la necessità di essere antifragili di fronte ad un evento inaspettato e negativo per la nostra sopravvivenza, guardare avanti, comunicare, provare dandosi obiettivi misurabili e realistici, identificare le azioni e quindi ...partire.

Ecco che emergono concetti del coaching mindset...

In quanti siamo qui dentro

Gallwey nel suo libro “Il gioco interiore del tennis”, utilizzando la metafora del gioco del tennis e del giocatore che sta imparando, ci parla di due sé presenti dentro di noi. Il primo è quello giudicante, orientato alla performance e al successo, il suo obiettivo è quello di riuscire nell’intento ed è completamente rivolto verso l'esterno. E’ quella parte che è sempre attiva, che non si sa spegnere e che genera quel “chiacchiericcio interiore” che continua a farci pensare in qualunque momento ma che non ci serve, se non per tenere impegnata la mente, è un’interferenza. E’  come un leader che non si fida dei suoi collaboratori anche se sa benissimo che questi sono in grado di svolgere i compiti a loro richiesti. Tuttavia, per mantenere il controllo, organizza le loro attività, li monitora costantemente ed indica loro i passi da fare.

Il secondo sé ha capacità naturali che possono essere attivate con un pò di allenamento, si basano sull’istinto e sulla registrazione di ciò che osservano. L’osservazione e l’imitazione sono le sue prerogative, il rispecchiamento è una sua dote. Le neuroscienze ci insegnano che i neuroni specchio sono un meccanismo di apprendimento fondamentale.

Il primo sé non ha fiducia dell’altro, è un controllore, non ama seguire delle strade nuove. In pratica è la nostra parte che ha bisogno di sicurezza, è assolutamente fragile e poco capace di riconfigurarsi a fronte di eventi che lo portano a seguire strade nuove, ha il controllo ed è continuamente attivo. Ci trasmette un senso di sicurezza, lui sa come devono essere fatte le cose! In realtà pensa di saperlo perché spesso, pur provando e riprovando non gli vengono affatto bene!

Allora quando giochiamo a tennis e stiamo imparando, ad esempio, a fare il rovescio, ecco che il sé 1 cerca la regola, ripensa al manuale, controlla ogni muscolo al fine di far progredire il braccio così come la teoria insegna che dovrebbe essere e ricordandosi dei feedback avuti dagli allenatori. Siamo nella mente.

Nella stessa situazione, invece, il secondo sé sarebbe perfettamente in grado di cavarsela perché ha sperimentato diversi “rovesci”, alcuni con successo altri meno, ed ha registrato cosa fare nei casi di successo e l’insuccesso è comunque un apprendimento

Facendo un parallelismo con il leader, il leader controllore fa esattamente come il sé 1, mentre il leader che lascia spazio di sperimentare e di sbagliare non si muove su un piano mentale ma cerca nell’esperienza, come suggerito dall’agilità, prima di tutto gli esperimenti.

L’esperienza e la definizione degli esperimenti sono prerogativa del team, che è (si spera) più competente del leader in questi ambiti.

Il Giudizio

Accettato il fatto che siamo composti da più parti, come il divertente film della Disney Inside out ci ha fatto capire, come facciamo a scardinare il meccanismo e a far emergere uno stile di leadership più trust?

Abbandonando il giudizio.

Lo stile di leadership altamente controllante ha come effetto quello di disincentivare e deresponsabilizzare le persone. Il leader si sostituisce al cosiddetto follower che deve agire senza alcuna legittimazione e indipendenza.

Per questo leader disinnescare il giudizio vuol dire vedere la catena di eventi negativi non come tali e sollecitare una valutazione critica da parte di tutto il team, insomma come un giocatore di tennis che si guarda allo specchio per osservare gli errori nella sua impostazione.

Vuole anche dire aiutare il team ad osservarsi a fronte di eventi positivi, ripercorrere le azioni fatte e le sensazioni. Memorizzare soprattutto queste ultime possono aiutare le persone a ritrovare la motivazione a fronte di passaggi complicati nel progetto che stanno seguendo.

Lasciare spazio

Il passaggio successivo consiste nel lasciare spazio.

Il leader, che ora è riuscito a osservare e tenere da parte il giudizio, dovrebbe osservare le persone del team per rendersi conto di quello che realmente possono fare.

E’ molto probabile che in questa fase osservi cose mai viste prima!

Il leader sta andando verso l'informazione e non viceversa. Sta andando a vedere la “catena di montaggio” per osservare quanto le persone del team sono già in grado di organizzarsi e di compiere azioni non avendo alle spalle un “metronomo” umano, il leader.

Nella seconda parte dell'articolo vedremo come il coaching si integra per estendere le competenze del leader.

Smart Working da Remoto ma Agile

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Remote, Smart, Family Working…

Anzitutto un pò di chiarezza tra termini che parlano di lavoro da remoto ma che portano ad esperienze differenti. Il termine più usato e abusato è sicuramente smart working ma spesso con questo termine ci si riferisce al semplice remote working. Vediamo quindi le caratteristiche principali di queste metodologie.

Remote Working

Il remote working è quello che la maggior parte di noi fa in questo periodo di restrizioni, soprattutto chi lavorava in ufficio. Il luogo di lavoro è diventato la propria abitazione con un orario implicitamente gestito dal lavoratore. Si dovrebbe lavorare per obiettivi ma in realtà si lavora da casa con le stesse modalità utilizzate in ufficio. Questo sicuramente porta a inefficienza perché gli strumenti che si hanno sono diversi da quelli presenti in ufficio. Lavorare da remoto implicherebbe un diverso modo di interagire coi colleghi. Non è efficiente riempirla giornata di meeting, spesso “chiamati” al fine di controllare il lavoro degli altri.

In questo tipo di lavoro di fatto si sposta la location ed è quello che bene o male in molti abbiamo fatto, da un giorno all’altro, durante il primo lockdown.

Tutti i “supporti” per lavorare sono a carico del dipendente, tranne il pc aziendale.

Smart Working

Con il lavoro smart l’azienda passa (o dovrebbe passare) da una gestione della leadership basata sul “control” ad una più tendente al “trust”. Il lavoro è organizzato ad obiettivi, il luogo di lavoro è l’azienda o l’abitazione del collaboratore o altri luoghi. Con lo smart working l’azienda migliora la soddisfazione dei collaboratori interessati e ottiene ottiene un incremento delle performance. La differenza fondamentale è il concetto di trust. Definendo obiettivi si lascia al lavoratore l’organizzazione del proprio tempo che può quindi includere orari di lavoro autodeterminati (ad esclusione dei meeting) e la possibilità di gestire meglio il tempo personale. Si evitano così spostamenti spesso faticosi e di lunga durata che portano ad aumentare il fattore stress personale e ad una maggiore spesa per raggiungere il posto di lavoro.

Agile Working

Con il lavoro agile si implementano i concetti espressi nel manifesto sull’Agilità. Le persone (clienti e collaboratori) sono messe al centro, si lavora per raffinamenti successivi e si utilizzano esperimenti atti a convalidare o meno le ipotesi anziché scrivere a priori corposa documentazione che poi, puntualmente, dovrà essere modificata . E’ un mindset che da solo richiederebbe una serie di articoli e che coniuga, in una visione sistemica, il lavoro delle persone, intese come team, ad una leadership in completa modalità “trust” utilizzando l’intelligenza emotiva (vedi i numerosi libri di Goleman sul tema) come vettore di comunicazione anche non verbale.

Con “trust” intendo un stile di leadership in cui il leader è un facilitatore, quasi un coach. Non controlla le persone passo passo ma le aiuta a seguire l’obiettivo.

Non è una necessaria evoluzione dello smart working ma sicuramente aiuta a migliorare anche la serenità delle persone. Nel mio concetto di vita professionale questo risultato è già ampiamente sufficiente per giustificarne l’introduzione.

Family Working

Questo concetto di lavoro è stato formalizzato da non molto tempo, lo potete trovare anche qui. Possiamo riassumerne i concetti nei seguenti punti:

  • le tecnologie devono essere adeguate e le fornisce l’azienda 
  • l’orario diventa totalmente flessibile e gestito tramite calendario elettronico; chi vuole può modificarlo anche ogni mese
  • i rapporti tra colleghi si gestiscono solo tramite videochiamate dalla propria postazione di casa, in questo modo si garantisce il diritto alla disconnessione 
  • l’azienda dovrà mettere a disposizione strumenti concreti per incentivare il benessere fisico e mentale, dal monitoraggio dello stato di salute e dello stress alle attività di fitness quotidiano con il personal trainer a distanza 
  • ai dipendenti con figli l’azienda offrirà contenuti ed esperti dedicati che possano suggerire e gestire a distanza attività da svolgere con i bambini in questa complicata fase con le scuole chiuse

Nel concetto del family working l’azienda si fa più carico di fornire al collaboratore gli strumenti per lavorare al meglio, lo mette al centro quindi, come ci dice l’Agilità. E’ sicuramente vero che in una azienda dove tutti i lavoratori sono a casa si hanno grandi risparmi in termini logistici e strumentali: sono necessari spazi ridotti, reti meno potenti e le postazioni di lavoro possono essere gestite in sharing.

Parte di questi risparmi possono essere investiti nella salute e benessere del collaboratore aumentandone implicitamente il coinvolgimento e quindi la produttività.

La difficoltà di cambiare

Per chi lavora in una stessa azienda/ruolo d molto tempo, la consequenzialità di azioni, compiti, responsabilità, porta ad avere la sensazione di “sapere sempre dove mettere le mani” e “sapersi muovere in azienda”. Queste sicurezza ci tengono ancorati in una situazione professionale, immobili, tanto comunque là fuori è tutto uguale!

Da qui il disagio di cambiare la modalità in cui lavoriamo da quella in presenza presso l’azienda a remoto o mista.

Del resto amiamo le certezze perchè cambiare è faticoso. Anche in questo mio articolo https://www.agilethinking.it/2019/12/29/le-neuroscienze-e-il-cambiamento

ne parlo. Le neuroscienze ci dicono che la nostra mente tende a ripercorrere schemi conosciuti per fare meno fatica, per avere tutto sotto controllo.

La sicurezza, nello stesso tempo, è anche immobilità di pensiero ed azione. Occupiamo tutta la nostra quotidianità per soddisfare i bisogni professionali e personali senza avere mai un secondo libero e senza riuscire a rispondere ad una domanda fondamentale riassumibile in una parola: perché. Trovare, in altre parole, il senso e la soddisfazione in ciò che professionalmente facciamo dovrebbe essere molto più importante della sicurezza.

Recentemente abbiamo obbligatoriamente “messo dello spazio” nella nostra vita lavorando da casa a causa di alcuni lockdown. Abbiamo imparato, noi e le aziende, che possiamo lavorare anche senza mettere il lavoro al centro, piuttosto mettendo noi stessi. Chi può lavorare da casa forse lavora di più ma sicuramente si gestisce meglio il proprio tempo e le emergenze e non deve attraversare la città di corsa affollando i mezzi o aumentando il traffico per gestire i propri impegni personali.

Quasi magicamente ci accorgiamo di avere momenti liberi in più e più congeniali, possiamo utilizzare la pausa pranzo per fare sport o una passeggiata sotto casa, possiamo spezzare la giornata e allungare i tempi di lavoro in serata. Tutto ciò crea spazio, spazio per pensare non razionalmente, spazio per iniziare a dare risposte sul senso di ciò che facciamo. Quando siamo più sereni siamo più creativi perché siamo più vicini ad uno stato di flusso.

In questo stato le persone reagiscono molto bene all’imprevisto e riescono ad avere prestazioni elevate col minimo sforzo.

Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti, attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene! 

Tutti insomma ci guadagnamo, bisogna solo buttarsi.

Leadership remota

Analogamente anche lo stile di leadership deve adeguarsi al lavoro da remoto. il “trust” come già abbiamo detto deve diventare lo stile predominante, il leader deve comunicare tenendo conto che i tool virtuali possono facilitare o meno persone molto emotive.

I meeting non devono occupare ogni momento, soprattutto in un contesto di Agile Working, in cui l’esperimento è la parte importante. 

Non dobbiamo quindi portare in remoto il modo da lavorare che avevamo in presenza, ma trovare altre modalità.

Concentrarsi sugli obiettivi e non sulle singole attività, evitando il controllo e promuovendo il trust.

Non utilizzare troppi tool ma concentrarsi su quelli utili in base al team/progetto.

Infine, se compatibile con le policy aziendali, assicurarsi che le persone abbiano gli strumenti necessari a lavorare al meglio.

Il leader in questo caso è ulteriormente un facilitatore ed un coach. Deve facilitare la comunicazione e gestire momenti di retrospettiva (anche se non siamo in modalità Agile) in cui focalizzarci su quanto si è sperimentato in un certo periodo e come poterlo migliorare.

Le modalità di comunicazione poi non devono necessariamente essere sincrone.

Conclusioni

Distinguere lo stile di lavoro che stiamo attuando tra remote, smart, agile è il primo passo per capire dove vogliamo essere. Dare un senso a ciò che facciamo avvicinandolo al nostro modo di essere è la direzione auspicabile.

Naturalmente sono le stesse aziende a doversi incamminare verso una metà comune che ha come centro la persona.