Laboratorio di Coaching

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Sul coaching si trova ormai molto materiale. Anche su questo blog potrete trovare un articolo descrittivo qui.

Vi segnalo che ho attivato un servizio di Life Coaching in collaborazione con una interessante realtà milanese: il Bezzecca Lab.

Bezzecca Lab è un laboratorio linguistico-letterario milanese che nasce dall’esperienza di riuso di un luogo, per diventare spazio letterario, linguistico e culturale nel quale sperimentare e incrociare diverse forme di conoscenza umanistica e tecnico-pratica.

E' possibile prenotare sessioni di coaching contattando il Lab a questi riferimenti. La prima sessione, esplorativa e di prova, sarà gratuita. Ogni sessione successiva avrà un costo segnalato anche nella locandina riportata qui sotto.

 

 

La Mastermind, le Vibrazioni, il Kybalion

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L’evoluzione spirituale, mentale, di conoscenza, può avvenire attraverso diversi strumenti. Ho avuto il piacere e la fortuna di iniziare con Vito Semeraro un percorso evolutivo molto interessante attraverso una Mastermind ovvero unire conoscenze, competenze, esperienze per un obiettivo comune, in un percorso nel quale emergono nuove consapevolezze. Alla nostra Mastermind, nel tempo, si sono unite altre persone.

La Mastermind

Il concetto di Mastermind si delinea già nel libro del suo ideatore: “Think and Grow Rich” di Napoleon Hill, scrittore e saggista statunitense di inizio '900.

Siamo nel 1937 e in questo libro si parla di pensiero creativo, di intelligenza collettiva, di obiettivi comuni. Hill pone le basi per sviluppare negli anni successivi un concetto che ritroviamo oggi applicato anche in ambiti aziendali, mettere a fattor comune le competenze perchè l’unione di più menti è maggiore della loro somma. E' possibile trovare alcuni spezzoni di sue interviste anche su YouTube.

L’esperienza della Mastermind prevede un gruppo di persone non molto numeroso che voglia aprirsi e confrontarsi secondo una precisa scaletta. Una persona del gruppo si propone come coordinatore al fine di far rispettare le fasi della Mastermind. Le regole devono essere poche e ben chiare per esempio la frequenza degli incontri, la disdetta, il rispetto per gli altri, la durata di ogni incontro.

Nell'incontro il gruppo si organizza secondo linee che si autodeterminano con tutti i componenti. Lo scopo è quello di far emergere un argomento a cui dedicare l’incontro. Non è necessario che il tema trattato sia di natura tecnico-pratico-professionale, può anche essere un tema di natura personale, spirituale, emotivo rispetto al quale ogni componenti del gruppo porta la propria esperienza, o esplora, attraverso domande il tema con l’obiettivo di stimolare riflessioni e fare emergere nuove competenze. Non è quindi un momento di consulenza o di tutoraggio, è piuttosto un mettere in comune.

Sulla Mastermind in sé e ci si potrebbe soffermare a lungo, ciò che mi interessa qui è esplorare  il suo principio di funzionamento che, in base alla mia esperienza diretta, trova molte connessioni con alcuni principi espressi nel Kybalion, un saggio i cui autori si riferiscono a conoscenze espresse nelle tavole smeraldine di Ermete Trismegisto.

Il Kybalion nella Mastermind

Nell’ottica ermetica del Kybalion trovo due principi strettamente applicabili alla Mastermind: il principio della vibrazione e quello del Tutto.

Nel processo della Mastermind, come abbiamo detto, si identifica un’obiettivo, che può essere portato da un singolo componente del gruppo o da tutti.  Insieme si esplorano le possibilità, si percorre la strada delle domande, si possono utilizzare tecniche di gamification.

Cosa sottende al processo che si sta mettendo in atto?

Dal Kybalion: “..ogni pensiero, emozione e stato mentale è accompagnato dal corrispondente grado di vibrazione…”  e ancora “..in base al principio di Vibrazione applicato ai fenomeni mentali possiamo polarizzare la nostra mente al grado desiderato..”

La vibrazione è un concetto che troviamo fin dalla fisica quantistica che ancora non ha risolto il dualismo onda-particella per spiegare lo strano comportamento degli elettroni. Alla base stessa della materia, di cui siamo composti, abbiamo le vibrazioni. La materia vibra, noi vibriamo, le nostre parole se pronunciate vibrano e lo fanno con intensità deversa anche a seconda del livello a cui il nostro stato d’animo si trova. La vibrazione è uno dei primi concetti che troviamo anche nel Vangelo di Giovanni considerandolo da un punto di vista laico: “en arke en o logos..”. Il logos è parola, verbo e quindi vibrazione.

Quando portiamo un tema lo descriviamo con un certo livello di vibrazione. Se il tema è un ostacolo da superare la vibrazione sarà necessariamente bassa, poiché stiamo esponendo un problema, un limite, un blocco oltre il quale non riusciamo a vedere. Agendo sulla vibrazione e alzandone il livello si arriverà a modificare la realtà iniziale mettendo in luce le nuove competenze. Come?

Attraverso, ad esempio, domande, la gamification o attraverso la condivisione delle esperienze portate senza porsi limiti in un contesto protetto. Nel corso della Mastermind questa fase è percepibile, dall'enunciato del problema alla visualizzazione dell'obiettivo desiderato si sta già alzando il livello di vibrazione.

Con un parallelismo che solo accenno, questi concetti li troviamo negli esperimenti sull’acqua di Masaru Emoto ma anche, per usare un’espressione di Elio D’Anna nella Scuola degli Dei, "sogna, la realtà verrà di conseguenza".

La vibrazione dunque ha un grande potere e nella Mastermind può essere amplificato poiché gli individui mettono in comune le proprie menti, energie, vibrazioni, competenze creando uno spazio comune, un’intelligenza collettiva che è maggiore della somma delle singole. Del resto ciascuno di noi è l’insieme di un potenziale universale e di relazione, siamo una specie sociale, al di là delle aberrazioni socio-internettiane, e attraverso la relazione possiamo potenziare le nostre caratteristiche o scoprirle o farle maturare, ovvero farne alzare il livello di vibrazione. Ciò è possibile perchè apparteniamo ad un “Tutto”, sempre secondo il Kybalion, dal quale abbiamo avuto spiritualmente origine e al quale ancora apparteniamo ma forse ce ne siamo dimenticati. La separazione dal Tutto è solo illusoria, la dualità tra noi e Lui non esiste, siamo una sola cosa e la dimostrazione l’abbiamo in quei momenti, come nella Mastermind, in cui ci si può ritrovare e  aiutare senza una profondo conoscenza reciproca.

Per realizzare una Mastermind non servono conoscenze, è possibile sperimentarla creandone una o partecipare a gruppi già esistenti e dopo un pò... diventa una necessità.

La Mastermind a cui partecipo si chiama "Crescita Personale" ed è aperta a candidature, trovate qui il modulo google.

Cos’è il Coaching

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Dopo essere diventato coach professionista, l’obiettivo successivo è ...metterlo in pratica e quindi proporsi al fine di trovare clienti (coachee) con cui iniziare percorsi di coaching. Quindi il problema diventa spiegare cos’è un coach, cosa fa e cos’è il coaching, ma quando ci provo le prime domande sono:

“Sì ma coach di che?”, “Ma quindi sei un allenatore?”, “Coach di quale sport?”

Credo sia naturale, la parola stessa, “coach”, può trarre in inganno sebbene non sia del tutto sbagliato pensare al coach come un allenatore...ma di competenze.

Il coaching si svolge, nella pratica, attraverso una o più sessioni da remoto o in presenza in cui il coach, attraverso una serie di domande, permette al coachee di identificare un obiettivo da raggiungere a fine sessione e un insieme di strategie ed azioni per raggiungerlo. In sostanza si lavora su un’area ben definita della vita del coachee nell’ambito della quale egli vuole migliorare un aspetto ben circoscritto. 

Chi lavora veramente…? 

La sessione è una partnership, ovvero una collaborazione in cui le due persone coinvolte hanno ruoli distinti. Il coach è l’esperto del processo di coaching, sa come fare le domande, quando farle e come porsi. Facilita il cliente a scoprire come raggiungere l’obiettivo concordato. 

E’ compito del coachee, colui che veramente fa fatica, trovare le risposte.

Il coach quindi non fornisce consigli e neanche suggerimenti, non aiuta in modo diretto, non si occupa di traumi pregressi, non è un consulente ma neanche uno psicologo o un counselor.

A cosa servono le domande fatte dal coach? Servono a mettere a fuoco le risorse già presenti nel coachee e che gli serviranno per definire tutti i passi necessari per raggiungere l’obiettivo. 

Attenzione si ha a disposizione solo il tempo di sessione per raggiungere l’obiettivo. Un semplice esempio, “Vorrei identificare alcuni miei strumenti per organizzare al meglio la mia giornata di lavoro”. Al termine della sessione il coachee dovrà andarsene con una serie di tecniche o azioni o principi applicabili nella sua vita professionale e che da solo , finora, non è riuscito a focalizzare. Il coach lo aiuta a metterle a fuoco e a superare quegli ostacoli o quelle credenze limitanti che non gli hanno permesso di farlo finora.

Naturalmente è responsabilità del coachee mettere in pratica ciò che è emerso nella sessione. Il coach è responsabile solo del processo e del risultato di sessione ovvero aiutare il cliente a  raggiungere ciò che voleva.

A chi serve il coaching

A chiunque voglia fare un percorso di crescita personale riconoscendo le proprie risorse e portandole su un piano di consapevolezza.

Un coach quindi non insegna e non suggerisce, aiuta a “tirare fuori” e,  con un approccio maieutico, attraverso l’utilizzo di domande, permette al cliente (coachee) di costruire un “ponte” tra dove si trova ora e dove vorrà essere al termine del percorso di coaching

In questo senso può essere visto come un allenatore di competenze; il coaching ha un taglio pragmatico ma scende anche su piani valoriali dove trovano fondamento le azioni identificate per arrivare “là dove il coachee vuole arrivare” 

Per approfondire

Per approfondire queste tematiche, fare una sessione di coaching di prova o iniziare un percorso puoi contattarmi prendendo un appuntamento con me a questa pagina: Meeting Slot

C’è spazio per la spiritualità nei team in ambito lavorativo?

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La Spiritualità

Robert Giacalone e Carole Jurkiewicz, due ricercatori di spiritualità sul posto di lavoro, forniscono questa definizione nel loro articolo del 2003:

“una struttura di valori organizzativi evidenziati nella cultura che promuove l'esperienza di trascendenza dei dipendenti attraverso il processo lavorativo, facilitando il loro senso di connessione con gli altri in un modo che fornisce sentimenti di completezza e gioia."

Connessione, completezza, gioia e quindi benessere, sentirsi parte di qualcosa di più grande generando così un effetto “volano” che migliora il benessere collettivo, dell’azienda, e individuale.

L’approccio è olistico e non potrebbe essere altrimenti. Abbiamo capito ormai che non siamo fatti a compartimenti stagni e che non è davvero possibile non portarsi sul posto di lavoro ciò che siamo e sentiamo nella vita privata. Quindi se modalità di relazione interpersonale ci fanno stare bene, perché non provare a portarle al lavoro? Certo nella vita privata abbiamo più controllo mentre in un ufficio non dipende tutto da noi ma anche dal “mindset” aziendale come Laloux ci descrive ampiamente nel suo libro “Reinventare le organizzazioni”.

Spiritualità dell’individuo

D’altra parte non occorrono anni di meditazione o corsi spirituali di livello avanzato, possiamo incontrare un approccio spirituale anche in comportamenti quali un ascolto empatico, rispetto per se stessi e per gli altri, un linguaggio verbale assertivo.

Sentirsi parte del tutto è un concetto più “alto” rispetto a “star bene nel luogo in cui si lavora”. Goleman, ne parleremo più avanti, affronta questi temi descrivendoci lo stato di flusso, ma la spiritualità è qualcosa che sta “sopra” ed è strettamente connessa al concetto di crescita personale e non solo di crescita professionale.

Quali sono i modi per predisporre il setting per un ambiente di lavoro spirituale?

Prima di rispondere a questa domanda sarebbe opportuno fare un passo indietro o meglio, un passo "dentro". Quali sono gli atteggiamenti che facilitano l’emergere della spiritualità nelle relazioni e sul posto di lavoro?

Anzitutto occorre una buona dose di auto consapevolezza, osservarsi, stare in contatto con le proprie emozioni, osservarle in relazione a ciò che stiamo vivendo. Essere quindi consapevoli e non attori passivi può condurci a identificare aree personali in cui migliorarsi. Questo mood può essere trasposto nell’ambito lavorativo dove  identificare i conflitti è sicuramente più utile che esserne vittima. Il conflitto è una nostra reazione ad un ostacolo, a qualcosa che è differisce rispetto a ciò che ci aspettavamo o a come vorremmo fossero le cose. Di fronte a tale scenario reagiamo facendo muro anziché vedere la situazione come opportunità per modificare le nostre convinzioni in un’ottica antifragile.

Identificarsi con la propria posizione o il proprio incarico è un altro atteggiamento che porta lontano dalla spiritualità. Non siamo ciò che facciamo, la nostra essenza è ben più profonda e ampia. Riconoscerlo vuol dire vedersi come possibili attori di altri destini in grado quindi di portare ricchezza a noi stessi e agli altri nel tentativo di dar vita a quel “volano” di cui abbiamo già parlato.

“Vedere” gli altri, dare loro un feedback positivo spontaneo creare opportunità di condivisione e scambio delle competenze sia hard che soft skills. Un esempio utilizzato in contesti agile sono le "Gilde" ovvero gruppi cross team nati proprio per questo scopo. 

Sicuramente ci sono tecniche che possono aiutare a far emergere e nutrire la spiritualità come la meditazione la mindfullness e possono anche essere introdotte nell’ambito lavorativo.

Ricapitolando

La spiritualità sul posto di lavoro è quindi sempre esistita, spesso soffocata, generando cosi insoddisfazione e frustrazione. Negli anni 60 Mc Gregor ci parla della Teoria X e Y per categorizzare due opposte modalità di gestione del lavoro da parte dei manager. Oggi a distanza di anni e dopo diversi passaggi evolutivi, sebbene non sempre messi in pratica dalle organizzazioni, possiamo iniziare a formalizzare la presenza di una spiritualità sempre sottesa ma mai ben identificata.

La spiritualità quindi propone un diverso insieme di valori che, se coltivati, trasformano il nostro rapporto con il lavoro nel lungo periodo.

Leadership e comunicazione degli obiettivi

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Definire chiaramente gli obiettivi, ma con quale limnguaggio?

Il leader quali aspetti deve curare?

 E’ meglio evidenziare ciò che il team dovrebbe raggiungere o ciò che dovrebbe evitare? 

Per rispondere a queste domande ho fatto un parallelismo con una sessione di coaching in cui gli obiettivi vanno sempre espressi in positivo. Vediamo perchè e come utilizzare questa tecnica nella gestione della leadership.

 

La definizione dell’obiettivo di una sessione di coaching riveste un'importanza fondamentale al fine del successo della sessione stessa, identifica il punto di arrivo. Assieme al risultato atteso permette ad entrambi gli attori della sessione (coach e coachee) di costruire un percorso di esplorazione, di consapevolezza, di strategia e di azioni. Naturalmente tale obiettivo deve essere carico di motivazioni per il coachee, altrimenti il percorso non avrebbe la giusta energia per essere costruito ed attraversato.

Sappiamo, per chi ha una formazione da coach, che, tra le altre cose, l’obiettivo va espresso in positivo. Perchè? Qual è l’effetto del formularlo in positivo?

C’è differenza tra negativo e positivo?

Esprimere l’obiettivo in positivo permette al coach di facilitare il coachee nella definizione del suo percorso di consapevolezza. L’obiettivo, espresso in maniera chiara e diretta delinea il traguardo che il coachee vuole raggiungere utilizzando risorse che sono già presenti in lui/lei. E’ un viaggio che si intraprende con ruoli distinti costruendo un ponte tra dove il coachee è ora e dove vorrà essere al termine della sessione. 

 

L’obiettivo deve avere quindi una bella energia, intensa e riconoscibile.

 

Partire esprimendo, all’interno dell’obiettivo, un concetto negativo, abbassa l’energia. Proviamo inoltre a pensare cosa succede quando qualcuno ci chiede di non pensare a qualcosa. Dopo pochi secondi noi la pensiamo, magari anche solo per non pensarla…

A parte il gioco di parole, se dicessi: “ora non pensare a quanto eri arrabbiato stamattina” quale effetto sortirei? Sicuramente, anche solo per pochi secondi, la vostra mente vi riporterà a quella sensazione di rabbia, alle sue cause, se note, ma in ogni caso i processi mentali porterebbero parte delle mie energie verso una direzione da cui invece voglio prendere le distanze.

Concentriamoci quindi su ciò che vogliamo piuttosto che su ciò che non vogliamo. Proviamo però a scendere ad un livello più profondo per capire davvero cosa stiamo facendo trasformando in positivo la definizione dell’obiettivo di sessione.

La nostra mente tende a riproporre sempre gli stessi schemi. Ce lo spiega bene Gallwey in uno dei suoi libri, “Il gioco interiore del tennis”. Ma non è il solo, anche John Kotter in un simpatico cartone animato intitolato “Who moved my cheese”, reperibile su youtube, ci mostra come è più semplice aspettare che le cose cambino.

Ma chi le deve far cambiare? Qualche entità esterna? Una magia forse?

Alice: Quale via dovrei prendere? 

Gatto: Dipende dove vuoi andare. 

Alice: Ma io non so dove andare. 

Gatto: Allora non importa quale via prendere!” 

(tratto da Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll)

Se il coachee ha chiesto una sessione è perchè vuole lavorare su qualcosa che non gli sta più bene. Qualche volta ha già le idee chiare, altre, come nel caso di Alice, deve chiarirsele. In questo processo abbiamo un nemico, che Gallwey chiamerebbe il Sé1. Una parte razionale e controllora della nostra mente che vuole fare poca fatica, vuole ripercorrere gli stessi sentieri perchè cambiare implica imparare, andare verso l’ignoto, costruire nuovi schemi mentali e nuove sinapsi. Questa parte vuole comandare, scegliere il percorso da fare, che però sarà sempre lo stesso di sempre.

Lo stesso modo con cui scegliamo un nuovo lavoro, un nuovo partner, una nuova casa o la pizza quando andiamo al ristorante.

Se voglio mettere in atto nuove strategie Galwey e Kotter (ma anche altri) ci dicono che è più semplice ed immediato descrivere la mia voglia di cambiamento parlando di una insoddisfazione: parlo quindi dell’ostacolo, lo rappresento nella mia mente e lo espongo al mio coach.

Implicitamente sto dando a questa immagine mentale energia. E’ come se la facessi continuamente resuscitare anche se, in qualche modo, rappresenta qualcosa che vuole cambiare, evolvere, altrimenti non farei una sessione di “cambiamento”.

Quindi io voglio costruire una nuova strada o, in termini più tecnici un ponte tra questa immagine e il futuro.

Se il futuro lo immagino identico al presente allora inutile percorrere la strada, siamo già arrivati!

Meglio sforzarsi a immaginare un obiettivo che parli del nuovo: ciò che vorrei “al posto di”, come vorrei essere. Insomma cara Alice dove vuoi andare?

Nel momento stesso in cui, con l’aiuto del coach, riuscirò a mettere a fuoco la mia nuova meta, il fatto stesso di descriverla a parole attiva il cambiamento. Credo che ripetere insieme al coachee l’obiettivo, espresso in positivo, sia come un rituale, un mantra. 

L’atto di parlare del resto è vibrazione, lo dicono anche altre discipline, parlare di cose negative abbassa l’energia e quindi la vibrazione. 

Iniziamo quindi la sessione aumentando l’energia, alzando il livello di vibrazione, da qui in poi, verso il futuro.

Conclusione

Coach e coachee sono qui sostituibili con leader e team. Il leader formulando gli obiettivi in positivo inizia un processo di comunicazione che ha vibrazioni, e quindi energie, in crescendo stimolando simili vibrazioni in chi lo ascolta.

La comunicazione è parola e questa è vibrazione e chi ascolta può entrare in risonanza