Coaching  per migliorare il rendimento scolastico

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Dopo una giornata passata a scuola, una piccola pausa pranzo, si apre il pomeriggio in cui bisogna trovare il giusto bilanciamento tra studio, attività extra-scolastiche, svago, sport.

Può il coaching  migliorare il rendimento scolastico? Vediamo come.

Le scuole, per chi vive nelle grandi città le scuole, dalle medie in poi, hanno richieste sempre più pressanti, performance elevate, compiti che necessitano di ore di concentrazione e studio, medie di voti da mantenere al fine di accedere alle scuole del ciclo successivo.

Come fare a “incastrare” tutto?

“Se faccio un piano e poi arriva l’imprevisto come lo gestisco?”

“Mi sento a volte sopraffatto/a dalla quantità di cose che devo seguire”.

“C’è una soluzione?”

La buona notizia è che ci sono diverse soluzioni, bisogna trovare quella più motivante per te, quella che risuona, quella che ti faccia dire:

 

”Ecco quello che cercavo!”

 

Trovare una corretta e motivante organizzazione dello studio e di tutte le attività della nostra giornata porta a utilizzare meglio le energie e di conseguenza ci saranno migliori risultati.

Non ti sto proponendo un gioco di magia e neanche un tirare ad indovinare ma un serio lavoro di coaching.

Organizzarsi e mettere in fila le cose da fare non basta.

Serve imparare a gestire l’imprevisto, organizzarsi per step successivi, modificare e migliorare l’approccio che è stato scelto, insomma un approccio Agile può davvero portare alla svolta.

I cambiamenti, in questo caso nell’organizzazione degli impegni, vanno ancorati a solide fondamenta motivazionali.

Domani inizio la dieta, lunedì smetto di fumare, settimana prossima farò sport tutti i giorni. Difficilmente queste affermazioni avranno seguito se l’obiettivo non portà in sé un importante valore aggiunto. L’obiettivo in sostanza deve essere carico di motivazione. Il risultato atteso deve davvero portare un cambiamento che ci stimoli talmente tanto da farci da traino.

Eccoci quindi alla classica domanda: come fare?

Anzitutto ti propongo un esercizio, che puoi scaricare gratuitamente qui,  farai una “foto” del modo in cui ti organizzi.

Questo esercizio potrebbe già farti notare qualcosa da cambiare e farti venire idee, se vorrai approfondire il tema e trovare il tuo stile organizzativo, contattami per una sessione gratuita e per capire come il coaching  può migliorare il tuo rendimento scolastico.

Ciò che faccio non e ciò che vorrei, ma cosa vorrei?

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Ci sono momenti nella vita in cui ciò che facciamo non ci corrisponde più.

Ce ne accorgiamo dal nostro stato d’animo, dalle sensazioni di malessere, dalla mancanza di soddisfazione che sentiamo a fine giornata e a volte da un senso di insoddisfazione.

Lo sentiamo dalla mancanza di entusiasmo con cui iniziamo la giornata; siamo totalmente orientati al dovere e per nulla al piacere.

Viene a mancare, o non c’è mai stata, la connessione tra ciò che facciamo e ciò che desideriamo, come se fossimo separati.

Cosa realmente ci interessa? Quali sono le cose che ci fanno “vibrare”? Quale è la nostra vocazione? E’ possibile coniugare dovere e piacere?

Questa situazione può manifestarsi senza un apparente motivo, altre volte c’è un fattore scatenante che potrebbe essere, ad esempio, la perdita del lavoro,  un nuovo ciclo scolastico, la fine di una relazione, il cambio di casa, il superamento di una malattia e così via, o semplicemente “settembre” per molti la ripresa della quotidianità. Gli ambiti possono essere la vita privata, quella lavorativa o studentesca.

Ora che ci troviamo in una situazione non certo confortevole, che fare?

Cosa possiamo cambiare della nostra vita e come? Solo pensare ad un cambiamento ci potrebbe portare in uno stato di malessere anche peggiore. Se cambio come pago il mutuo? E la famiglia? Come gestisco le aspettative che gli altri hanno su di me? Questi sono solo alcuni esempi di pensieri che ci portano a gettare la spugna ancora prima di iniziare.

Rischiamo di entrare in un “loop mentale” che, alla fine, ripropone sempre gli stessi pensieri.

Serve una nuova visione, qualcosa che ci faccia sognare, che aumenti il livello di vibrazione, qualcosa che ci faccia sentire più leggeri.

Può essere utile immaginare di parlare a noi stessi, a quella parte che ci trattiene dal cambiare oppure a quella che ci fa sentire insoddisfatti, o ancora a quella parte che sa cosa vogliamo ma non ce lo mostra.

La nostra parte che ci trattiene è un “sabotatore”  ovvero quell’insieme di limitazioni che ci bloccano: non so fare altro, ho studiato per questo quindi devo assolutamente lavorare in questo settore, prima di muovermi devo aver chiaro tutto lo scenario futuro nei minimi dettagli, chi va in pensione poi si annoia, devo scegliere questa facoltà che sicuramente mi garantirà un posto di lavoro.

Il coach possiede le competenze per condurci, attraverso domande e non solo, verso l’identificazione delle nostre vere aspirazioni, isolando i vincoli e smascherando il sabotatore e quindi le credenze limitanti.

E tu vuoi iniziare a conoscere e dare forma al tuo sabotatore interiore? Scarica questo esercizio e poi, se vorrai ne parleremo magari in una sessione gratuita di prova.

Mi trovi anche sulla piattaforma di coaching Un Bravo Coach

Laboratorio di Coaching

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Sul coaching si trova ormai molto materiale. Anche su questo blog potrete trovare un articolo descrittivo qui.

Vi segnalo che ho attivato un servizio di Life Coaching in collaborazione con una interessante realtà milanese: il Bezzecca Lab.

Bezzecca Lab è un laboratorio linguistico-letterario milanese che nasce dall’esperienza di riuso di un luogo, per diventare spazio letterario, linguistico e culturale nel quale sperimentare e incrociare diverse forme di conoscenza umanistica e tecnico-pratica.

E' possibile prenotare sessioni di coaching contattando il Lab a questi riferimenti. La prima sessione, esplorativa e di prova, sarà gratuita. Ogni sessione successiva avrà un costo segnalato anche nella locandina riportata qui sotto.

 

 

La Mastermind, le Vibrazioni, il Kybalion

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L’evoluzione spirituale, mentale, di conoscenza, può avvenire attraverso diversi strumenti. Ho avuto il piacere e la fortuna di iniziare con Vito Semeraro un percorso evolutivo molto interessante attraverso una Mastermind ovvero unire conoscenze, competenze, esperienze per un obiettivo comune, in un percorso nel quale emergono nuove consapevolezze. Alla nostra Mastermind, nel tempo, si sono unite altre persone.

La Mastermind

Il concetto di Mastermind si delinea già nel libro del suo ideatore: “Think and Grow Rich” di Napoleon Hill, scrittore e saggista statunitense di inizio '900.

Siamo nel 1937 e in questo libro si parla di pensiero creativo, di intelligenza collettiva, di obiettivi comuni. Hill pone le basi per sviluppare negli anni successivi un concetto che ritroviamo oggi applicato anche in ambiti aziendali, mettere a fattor comune le competenze perchè l’unione di più menti è maggiore della loro somma. E' possibile trovare alcuni spezzoni di sue interviste anche su YouTube.

L’esperienza della Mastermind prevede un gruppo di persone non molto numeroso che voglia aprirsi e confrontarsi secondo una precisa scaletta. Una persona del gruppo si propone come coordinatore al fine di far rispettare le fasi della Mastermind. Le regole devono essere poche e ben chiare per esempio la frequenza degli incontri, la disdetta, il rispetto per gli altri, la durata di ogni incontro.

Nell'incontro il gruppo si organizza secondo linee che si autodeterminano con tutti i componenti. Lo scopo è quello di far emergere un argomento a cui dedicare l’incontro. Non è necessario che il tema trattato sia di natura tecnico-pratico-professionale, può anche essere un tema di natura personale, spirituale, emotivo rispetto al quale ogni componenti del gruppo porta la propria esperienza, o esplora, attraverso domande il tema con l’obiettivo di stimolare riflessioni e fare emergere nuove competenze. Non è quindi un momento di consulenza o di tutoraggio, è piuttosto un mettere in comune.

Sulla Mastermind in sé e ci si potrebbe soffermare a lungo, ciò che mi interessa qui è esplorare  il suo principio di funzionamento che, in base alla mia esperienza diretta, trova molte connessioni con alcuni principi espressi nel Kybalion, un saggio i cui autori si riferiscono a conoscenze espresse nelle tavole smeraldine di Ermete Trismegisto.

Il Kybalion nella Mastermind

Nell’ottica ermetica del Kybalion trovo due principi strettamente applicabili alla Mastermind: il principio della vibrazione e quello del Tutto.

Nel processo della Mastermind, come abbiamo detto, si identifica un’obiettivo, che può essere portato da un singolo componente del gruppo o da tutti.  Insieme si esplorano le possibilità, si percorre la strada delle domande, si possono utilizzare tecniche di gamification.

Cosa sottende al processo che si sta mettendo in atto?

Dal Kybalion: “..ogni pensiero, emozione e stato mentale è accompagnato dal corrispondente grado di vibrazione…”  e ancora “..in base al principio di Vibrazione applicato ai fenomeni mentali possiamo polarizzare la nostra mente al grado desiderato..”

La vibrazione è un concetto che troviamo fin dalla fisica quantistica che ancora non ha risolto il dualismo onda-particella per spiegare lo strano comportamento degli elettroni. Alla base stessa della materia, di cui siamo composti, abbiamo le vibrazioni. La materia vibra, noi vibriamo, le nostre parole se pronunciate vibrano e lo fanno con intensità deversa anche a seconda del livello a cui il nostro stato d’animo si trova. La vibrazione è uno dei primi concetti che troviamo anche nel Vangelo di Giovanni considerandolo da un punto di vista laico: “en arke en o logos..”. Il logos è parola, verbo e quindi vibrazione.

Quando portiamo un tema lo descriviamo con un certo livello di vibrazione. Se il tema è un ostacolo da superare la vibrazione sarà necessariamente bassa, poiché stiamo esponendo un problema, un limite, un blocco oltre il quale non riusciamo a vedere. Agendo sulla vibrazione e alzandone il livello si arriverà a modificare la realtà iniziale mettendo in luce le nuove competenze. Come?

Attraverso, ad esempio, domande, la gamification o attraverso la condivisione delle esperienze portate senza porsi limiti in un contesto protetto. Nel corso della Mastermind questa fase è percepibile, dall'enunciato del problema alla visualizzazione dell'obiettivo desiderato si sta già alzando il livello di vibrazione.

Con un parallelismo che solo accenno, questi concetti li troviamo negli esperimenti sull’acqua di Masaru Emoto ma anche, per usare un’espressione di Elio D’Anna nella Scuola degli Dei, "sogna, la realtà verrà di conseguenza".

La vibrazione dunque ha un grande potere e nella Mastermind può essere amplificato poiché gli individui mettono in comune le proprie menti, energie, vibrazioni, competenze creando uno spazio comune, un’intelligenza collettiva che è maggiore della somma delle singole. Del resto ciascuno di noi è l’insieme di un potenziale universale e di relazione, siamo una specie sociale, al di là delle aberrazioni socio-internettiane, e attraverso la relazione possiamo potenziare le nostre caratteristiche o scoprirle o farle maturare, ovvero farne alzare il livello di vibrazione. Ciò è possibile perchè apparteniamo ad un “Tutto”, sempre secondo il Kybalion, dal quale abbiamo avuto spiritualmente origine e al quale ancora apparteniamo ma forse ce ne siamo dimenticati. La separazione dal Tutto è solo illusoria, la dualità tra noi e Lui non esiste, siamo una sola cosa e la dimostrazione l’abbiamo in quei momenti, come nella Mastermind, in cui ci si può ritrovare e  aiutare senza una profondo conoscenza reciproca.

Per realizzare una Mastermind non servono conoscenze, è possibile sperimentarla creandone una o partecipare a gruppi già esistenti e dopo un pò... diventa una necessità.

La Mastermind a cui partecipo si chiama "Crescita Personale" ed è aperta a candidature, trovate qui il modulo google.

Cos’è il Coaching

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Dopo essere diventato coach professionista, l’obiettivo successivo è ...metterlo in pratica e quindi proporsi al fine di trovare clienti (coachee) con cui iniziare percorsi di coaching. Quindi il problema diventa spiegare cos’è un coach, cosa fa e cos’è il coaching, ma quando ci provo le prime domande sono:

“Sì ma coach di che?”, “Ma quindi sei un allenatore?”, “Coach di quale sport?”

Credo sia naturale, la parola stessa, “coach”, può trarre in inganno sebbene non sia del tutto sbagliato pensare al coach come un allenatore...ma di competenze.

Il coaching si svolge, nella pratica, attraverso una o più sessioni da remoto o in presenza in cui il coach, attraverso una serie di domande, permette al coachee di identificare un obiettivo da raggiungere a fine sessione e un insieme di strategie ed azioni per raggiungerlo. In sostanza si lavora su un’area ben definita della vita del coachee nell’ambito della quale egli vuole migliorare un aspetto ben circoscritto. 

Chi lavora veramente…? 

La sessione è una partnership, ovvero una collaborazione in cui le due persone coinvolte hanno ruoli distinti. Il coach è l’esperto del processo di coaching, sa come fare le domande, quando farle e come porsi. Facilita il cliente a scoprire come raggiungere l’obiettivo concordato. 

E’ compito del coachee, colui che veramente fa fatica, trovare le risposte.

Il coach quindi non fornisce consigli e neanche suggerimenti, non aiuta in modo diretto, non si occupa di traumi pregressi, non è un consulente ma neanche uno psicologo o un counselor.

A cosa servono le domande fatte dal coach? Servono a mettere a fuoco le risorse già presenti nel coachee e che gli serviranno per definire tutti i passi necessari per raggiungere l’obiettivo. 

Attenzione si ha a disposizione solo il tempo di sessione per raggiungere l’obiettivo. Un semplice esempio, “Vorrei identificare alcuni miei strumenti per organizzare al meglio la mia giornata di lavoro”. Al termine della sessione il coachee dovrà andarsene con una serie di tecniche o azioni o principi applicabili nella sua vita professionale e che da solo , finora, non è riuscito a focalizzare. Il coach lo aiuta a metterle a fuoco e a superare quegli ostacoli o quelle credenze limitanti che non gli hanno permesso di farlo finora.

Naturalmente è responsabilità del coachee mettere in pratica ciò che è emerso nella sessione. Il coach è responsabile solo del processo e del risultato di sessione ovvero aiutare il cliente a  raggiungere ciò che voleva.

A chi serve il coaching

A chiunque voglia fare un percorso di crescita personale riconoscendo le proprie risorse e portandole su un piano di consapevolezza.

Un coach quindi non insegna e non suggerisce, aiuta a “tirare fuori” e,  con un approccio maieutico, attraverso l’utilizzo di domande, permette al cliente (coachee) di costruire un “ponte” tra dove si trova ora e dove vorrà essere al termine del percorso di coaching

In questo senso può essere visto come un allenatore di competenze; il coaching ha un taglio pragmatico ma scende anche su piani valoriali dove trovano fondamento le azioni identificate per arrivare “là dove il coachee vuole arrivare” 

Per approfondire

Per approfondire queste tematiche, fare una sessione di coaching di prova o iniziare un percorso puoi contattarmi prendendo un appuntamento con me a questa pagina: Meeting Slot

C’è spazio per la spiritualità nei team in ambito lavorativo?

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La Spiritualità

Robert Giacalone e Carole Jurkiewicz, due ricercatori di spiritualità sul posto di lavoro, forniscono questa definizione nel loro articolo del 2003:

“una struttura di valori organizzativi evidenziati nella cultura che promuove l'esperienza di trascendenza dei dipendenti attraverso il processo lavorativo, facilitando il loro senso di connessione con gli altri in un modo che fornisce sentimenti di completezza e gioia."

Connessione, completezza, gioia e quindi benessere, sentirsi parte di qualcosa di più grande generando così un effetto “volano” che migliora il benessere collettivo, dell’azienda, e individuale.

L’approccio è olistico e non potrebbe essere altrimenti. Abbiamo capito ormai che non siamo fatti a compartimenti stagni e che non è davvero possibile non portarsi sul posto di lavoro ciò che siamo e sentiamo nella vita privata. Quindi se modalità di relazione interpersonale ci fanno stare bene, perché non provare a portarle al lavoro? Certo nella vita privata abbiamo più controllo mentre in un ufficio non dipende tutto da noi ma anche dal “mindset” aziendale come Laloux ci descrive ampiamente nel suo libro “Reinventare le organizzazioni”.

Spiritualità dell’individuo

D’altra parte non occorrono anni di meditazione o corsi spirituali di livello avanzato, possiamo incontrare un approccio spirituale anche in comportamenti quali un ascolto empatico, rispetto per se stessi e per gli altri, un linguaggio verbale assertivo.

Sentirsi parte del tutto è un concetto più “alto” rispetto a “star bene nel luogo in cui si lavora”. Goleman, ne parleremo più avanti, affronta questi temi descrivendoci lo stato di flusso, ma la spiritualità è qualcosa che sta “sopra” ed è strettamente connessa al concetto di crescita personale e non solo di crescita professionale.

Quali sono i modi per predisporre il setting per un ambiente di lavoro spirituale?

Prima di rispondere a questa domanda sarebbe opportuno fare un passo indietro o meglio, un passo "dentro". Quali sono gli atteggiamenti che facilitano l’emergere della spiritualità nelle relazioni e sul posto di lavoro?

Anzitutto occorre una buona dose di auto consapevolezza, osservarsi, stare in contatto con le proprie emozioni, osservarle in relazione a ciò che stiamo vivendo. Essere quindi consapevoli e non attori passivi può condurci a identificare aree personali in cui migliorarsi. Questo mood può essere trasposto nell’ambito lavorativo dove  identificare i conflitti è sicuramente più utile che esserne vittima. Il conflitto è una nostra reazione ad un ostacolo, a qualcosa che è differisce rispetto a ciò che ci aspettavamo o a come vorremmo fossero le cose. Di fronte a tale scenario reagiamo facendo muro anziché vedere la situazione come opportunità per modificare le nostre convinzioni in un’ottica antifragile.

Identificarsi con la propria posizione o il proprio incarico è un altro atteggiamento che porta lontano dalla spiritualità. Non siamo ciò che facciamo, la nostra essenza è ben più profonda e ampia. Riconoscerlo vuol dire vedersi come possibili attori di altri destini in grado quindi di portare ricchezza a noi stessi e agli altri nel tentativo di dar vita a quel “volano” di cui abbiamo già parlato.

“Vedere” gli altri, dare loro un feedback positivo spontaneo creare opportunità di condivisione e scambio delle competenze sia hard che soft skills. Un esempio utilizzato in contesti agile sono le "Gilde" ovvero gruppi cross team nati proprio per questo scopo. 

Sicuramente ci sono tecniche che possono aiutare a far emergere e nutrire la spiritualità come la meditazione la mindfullness e possono anche essere introdotte nell’ambito lavorativo.

Ricapitolando

La spiritualità sul posto di lavoro è quindi sempre esistita, spesso soffocata, generando cosi insoddisfazione e frustrazione. Negli anni 60 Mc Gregor ci parla della Teoria X e Y per categorizzare due opposte modalità di gestione del lavoro da parte dei manager. Oggi a distanza di anni e dopo diversi passaggi evolutivi, sebbene non sempre messi in pratica dalle organizzazioni, possiamo iniziare a formalizzare la presenza di una spiritualità sempre sottesa ma mai ben identificata.

La spiritualità quindi propone un diverso insieme di valori che, se coltivati, trasformano il nostro rapporto con il lavoro nel lungo periodo.

Leadership e comunicazione degli obiettivi

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Definire chiaramente gli obiettivi, ma con quale limnguaggio?

Il leader quali aspetti deve curare?

 E’ meglio evidenziare ciò che il team dovrebbe raggiungere o ciò che dovrebbe evitare? 

Per rispondere a queste domande ho fatto un parallelismo con una sessione di coaching in cui gli obiettivi vanno sempre espressi in positivo. Vediamo perchè e come utilizzare questa tecnica nella gestione della leadership.

 

La definizione dell’obiettivo di una sessione di coaching riveste un'importanza fondamentale al fine del successo della sessione stessa, identifica il punto di arrivo. Assieme al risultato atteso permette ad entrambi gli attori della sessione (coach e coachee) di costruire un percorso di esplorazione, di consapevolezza, di strategia e di azioni. Naturalmente tale obiettivo deve essere carico di motivazioni per il coachee, altrimenti il percorso non avrebbe la giusta energia per essere costruito ed attraversato.

Sappiamo, per chi ha una formazione da coach, che, tra le altre cose, l’obiettivo va espresso in positivo. Perchè? Qual è l’effetto del formularlo in positivo?

C’è differenza tra negativo e positivo?

Esprimere l’obiettivo in positivo permette al coach di facilitare il coachee nella definizione del suo percorso di consapevolezza. L’obiettivo, espresso in maniera chiara e diretta delinea il traguardo che il coachee vuole raggiungere utilizzando risorse che sono già presenti in lui/lei. E’ un viaggio che si intraprende con ruoli distinti costruendo un ponte tra dove il coachee è ora e dove vorrà essere al termine della sessione. 

 

L’obiettivo deve avere quindi una bella energia, intensa e riconoscibile.

 

Partire esprimendo, all’interno dell’obiettivo, un concetto negativo, abbassa l’energia. Proviamo inoltre a pensare cosa succede quando qualcuno ci chiede di non pensare a qualcosa. Dopo pochi secondi noi la pensiamo, magari anche solo per non pensarla…

A parte il gioco di parole, se dicessi: “ora non pensare a quanto eri arrabbiato stamattina” quale effetto sortirei? Sicuramente, anche solo per pochi secondi, la vostra mente vi riporterà a quella sensazione di rabbia, alle sue cause, se note, ma in ogni caso i processi mentali porterebbero parte delle mie energie verso una direzione da cui invece voglio prendere le distanze.

Concentriamoci quindi su ciò che vogliamo piuttosto che su ciò che non vogliamo. Proviamo però a scendere ad un livello più profondo per capire davvero cosa stiamo facendo trasformando in positivo la definizione dell’obiettivo di sessione.

La nostra mente tende a riproporre sempre gli stessi schemi. Ce lo spiega bene Gallwey in uno dei suoi libri, “Il gioco interiore del tennis”. Ma non è il solo, anche John Kotter in un simpatico cartone animato intitolato “Who moved my cheese”, reperibile su youtube, ci mostra come è più semplice aspettare che le cose cambino.

Ma chi le deve far cambiare? Qualche entità esterna? Una magia forse?

Alice: Quale via dovrei prendere? 

Gatto: Dipende dove vuoi andare. 

Alice: Ma io non so dove andare. 

Gatto: Allora non importa quale via prendere!” 

(tratto da Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll)

Se il coachee ha chiesto una sessione è perchè vuole lavorare su qualcosa che non gli sta più bene. Qualche volta ha già le idee chiare, altre, come nel caso di Alice, deve chiarirsele. In questo processo abbiamo un nemico, che Gallwey chiamerebbe il Sé1. Una parte razionale e controllora della nostra mente che vuole fare poca fatica, vuole ripercorrere gli stessi sentieri perchè cambiare implica imparare, andare verso l’ignoto, costruire nuovi schemi mentali e nuove sinapsi. Questa parte vuole comandare, scegliere il percorso da fare, che però sarà sempre lo stesso di sempre.

Lo stesso modo con cui scegliamo un nuovo lavoro, un nuovo partner, una nuova casa o la pizza quando andiamo al ristorante.

Se voglio mettere in atto nuove strategie Galwey e Kotter (ma anche altri) ci dicono che è più semplice ed immediato descrivere la mia voglia di cambiamento parlando di una insoddisfazione: parlo quindi dell’ostacolo, lo rappresento nella mia mente e lo espongo al mio coach.

Implicitamente sto dando a questa immagine mentale energia. E’ come se la facessi continuamente resuscitare anche se, in qualche modo, rappresenta qualcosa che vuole cambiare, evolvere, altrimenti non farei una sessione di “cambiamento”.

Quindi io voglio costruire una nuova strada o, in termini più tecnici un ponte tra questa immagine e il futuro.

Se il futuro lo immagino identico al presente allora inutile percorrere la strada, siamo già arrivati!

Meglio sforzarsi a immaginare un obiettivo che parli del nuovo: ciò che vorrei “al posto di”, come vorrei essere. Insomma cara Alice dove vuoi andare?

Nel momento stesso in cui, con l’aiuto del coach, riuscirò a mettere a fuoco la mia nuova meta, il fatto stesso di descriverla a parole attiva il cambiamento. Credo che ripetere insieme al coachee l’obiettivo, espresso in positivo, sia come un rituale, un mantra. 

L’atto di parlare del resto è vibrazione, lo dicono anche altre discipline, parlare di cose negative abbassa l’energia e quindi la vibrazione. 

Iniziamo quindi la sessione aumentando l’energia, alzando il livello di vibrazione, da qui in poi, verso il futuro.

Conclusione

Coach e coachee sono qui sostituibili con leader e team. Il leader formulando gli obiettivi in positivo inizia un processo di comunicazione che ha vibrazioni, e quindi energie, in crescendo stimolando simili vibrazioni in chi lo ascolta.

La comunicazione è parola e questa è vibrazione e chi ascolta può entrare in risonanza




Il Coach è Agile?

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L’Agilità è un “mindset” definito ampiamente nel suo manifesto e soprattutto dalla pratica di oltre vent’anni di attività.

Il coaching è …?

Io lo definisco come un “viaggio” in cui il coach, attraverso domande, permette al coachee (il cliente) di costruire la propria strada verso il suo obiettivo. Una strada realizzata utilizzando risorse già presenti nel coachee. Se poi avete voglia di approfondire potete leggere il mio articolo "Cos'è il coaching".

Ma da “agilista” convinto ed ora da coach professionista ho subito notato un forte parallelismo tra i principi dell’agilità espresse nel manifesto Agile e le competenze del coach.

Iniziamo quindi questo viaggio con l'obiettivo di mettere a confronto questi due mondi apparentemente distanti.

La priorità dell’agilista è soddisfare il cliente attraverso rilasci frequenti (si parla qui tanto di software quanto di altri ambiti). Il coach ha come timeframe la sessione al termine della quale, per definirla di successo, l’obiettivo deve essere raggiunto e le azioni per arrivarci devono essere identificate. Un rilascio insomma. Solo così il cliente è soddisfatto.

Il secondo principio parla di antifragilità: i cambiamenti sono i benvenuti. Un coach è antifragile? Ovviamente lo è. Un coach si “svuota” prima e durante la sessione per seguire, in uno stato di flusso, il coachee. Ma il coachee cambia spesso direzione, rotta, per costruire la sua strada deve guardare in varie direzioni. Il coach non può quindi avere un percorso predeterminato in mente ma deve adeguarsi e adattare le proprie domande in base a quanto emerge.

Il coach ed il coachee sono immersi in una partnership che coinvolge tanto il fruitore, il coachee o cliente, quanto colui che lo segue, il coach. Entrambi sono coinvolti.

Un altro aspetto fondamentale della relazione di coaching è la comunicazione: diretta. Comunicare senza premesse, senza giri di parole, semplice. Il coach porta le sue domande in base al momento. Non pensa al dopo o al prima, sta nel presente, ascolta i ragionamenti e le emozioni del coachee e in quel momento costruisce la costruisce. Allo stesso modo l’agilità si occupa di ciò che serve massimizzando il lavoro non svolto. E’ un concetto interessante e potente, non mettiamo energie nello sviluppare qualcosa che servirà, forse, dopo perché dopo potrebbe non servire più. Nella progettazione Agile quindi ci si concentra sui task che appartengono al ciclo di sviluppo in corso... La similitudine è evidente.

Il coach tende sempre all’eccellenza rispetto alla sua tecnica. E’ portato, anche dal codice etico della propria didattica di riferimento ad una formazione continua e ad un continuo processo di mentoring finalizzato a migliorare le sue stesse tecniche.

Possiamo quindi dire che la relazione tra Agilità e Coaching è forte ma dove può portarci questa consapevolezza?

Nelle aziende dove si introduce l’Agilità ci sono grandi cambiamenti organizzativi, di relazione e di funzione.

E' sicuramente importante avere esperti Agili che aiutino i team a lavorare al meglio , ma lo sviluppo delle competenze emotive e il supporto al cambiamento sono .

Il coach professionista che conosce i concetti dell’agilità può aiutare le persone a riscoprire le proprie risorse e a metterle al servizio degli obiettivi propri o aziendali rispetto al cambiamento in corso.

Il coaching come strumento per la leadership agile (parte 2)

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Breve Recap

Nella prima parte abbiamo visto come far evolvere lo stile di leadership parlando di giudizio, stato di flusso, interferenze. Abbiamo quindi analizzato aspetti problematici e desiderata. In questa seconda parte vedremo come poter modificare lo stile di leadership.

Cambiare il modello di leadership

L’armonia tra i due sé si ha quando la mente è calma e focalizzata, Goleman lo definisce lo stato di flusso. Solo allora si può raggiungere una performance ottimale. 

Lo psicologo umanista Abraham Maslow ha chiamato tali momenti “esperienze culmine”. Nella sua ricerca sulle caratteristiche comuni tra le persone che hanno vissuto simili esperienze, riferisce le seguenti descrizioni: «Si sente più integrato» [i due sé diventano uno], «si sente un tutt’uno con l’esperienza», «si sente al culmine delle sue potenzialità», «pienamente funzionante», «a pieni giri», «senza sforzo», «libero da ogni blocco, inibizione, cautela, paura, dubbio, controllo, autocritica, freno», «è spontaneo e più creativo», «più presente», «non si sforza, non ha bisogni, non ha desideri… si limita a essere».  In sintesi, “armonizzare i due sé” richiede che la mente venga rallentata. Calmare la mente significa meno pensiero, calcolo, giudizio, preoccupazione, paura, speranza, sforzo, rimpianto, controllo, agitazione o distrazione. La mente è quieta quando è ferma nell’ora e nel qui, e attore e azione sono un tutt’uno.

La nostra mente sa creare la realtà che vediamo e questo ormai è la stessa fisica quantistica che ce lo dimostra spiegandoci la dualità delle particelle, l’entanglement (ampiamente dimostrato), il principio di indeterminazione di Heisenberg.

Ecco quindi che anche il leader può creare una realtà diversa partendo da una diversa rappresentazione mentale delle persone che ha davanti, guardandole con “occhiali” diversi, o a dirla alla modalità quantistica facendo collassare diversamente la funzione d’onda che crea la nostra realtà a partire da “tutte le realtà possibili”.

Il Coaching

Come il coaching può essere d’aiuto nella gestione della leadership e della relazione tra leader e componenti del team?

Il coach è un facilitatore che, attraverso accordi ben definiti col proprio cliente, lo aiuta a mettere a fuoco gli obiettivi da raggiungere. Obiettivi che sono propri del cliente e azioni, anch’esse messe a fuoco nel corso della partnership di cui il coach è un professionista e in cui il cliente è l’unico responsabile dell’attuazione. Il coach nel corso del processo (una o più sessioni) utilizza una modalità maieutica, estraendo e mettendo in luce ciò che già c’è e creando un rapporto di fiducia in cui il coach deve lasciare spazio.

Il coach aiuta quindi il cliente a creare un ponte tra dove è ora e dove vorrà essere alla fine della sessione, la direzione è il futuro. Si lascia quindi l’analisi del passato ad altre professionalità.

Il coach non è un counselor, non è uno psicologo, non è un mentore e neanche un consulente.

Mi piace pensare al percorso di coaching come il disegno di una mappa del tesoro che si era persa. Il tesoro è sempre lì, dov’era, ma il cliente ha perso la capacità di vederlo e quindi di trovare la strada per raggiungerlo. Il coach non conosce la strada, ma sa prendere per mano il coachee, un passo per volta, facendogli evitare buche troppo profonde in cui è possibile cadere e tenendo accesa una luce che illumina il futuro.

Insieme il cliente ricostruisce una mappa che poi sarà compito e responsabilità del coachee utilizzare per ritrovare il tesoro.

I concetti base del mindset di coaching possono essere riassunti in: fiducia, capacità del coach di mettere a tacere le sue interferenze (creare spazio) e quindi presenza sul coachee, ascolto, etica, relazione empatica, capacità di conduzione attraverso domande, facilitare l’emergere della consapevolezza, orientamento alla crescita, identificazione di azioni volte a raggiungere l’obiettivo desiderato, sensibilità verso il bene comune (Ubuntu: io sono in virtù di ciò che tutti siamo).

Mettendo tutto a fattor comune

Il leader “evoluto” si sente parte del team stesso in una modalità agile. Valorizza le persone e le tiene al centro del processo circondandosi di persone tecnicamente più competenti di lui in modo da creare quello spazio per potersi concentrare sull’aiuto, per spostarsi verso il coaching.

Il leader vuole tenere le persone in uno stato di flusso non solo perché così i team sono altamente performanti, ma perché le persone stanno bene e quindi, in un’ottica collettiva, tutti stanno meglio, siamo in un’ottica di benessere comune.

Gestisce i rapporti con la fiducia (il Trust) al posto del controllo e dove possibile si annulla affidandosi al team, credendo nelle persone ma anche nella sinergia tra tutti. Il leader deve saper togliere le proprie interferenze create dal sé controllore (Gallwey), deve creare spazio dentro di sé per ascoltare l’altro.

Il leader non solo agisce da coach quando serve, mettendo in atto sessioni uno a uno o di team, ma mette in campo tutte le competenze del coaching mindset nella relazione. Relazione che va creata andando a formare team auto organizzati, in cui non si utilizza la delega come panacea, ma si valorizzano le competenze di ciascuno attraverso un modalità di ascolto.

Qui cogliamo però una differenza rispetto al coach. Il leader può essere parte anche indiretta dell’obiettivo. Un esempio, in un team due persone non comunicano e quindi le performance del team stesso degradano. Il leader può anche decidere di offrire sessioni di coaching a entrambi al fine di migliorarne la comunicazione. In questo caso però i coachee non sono gli unici ad avere un vantaggio nel raggiungimento dell’obiettivo, il team ed il leader stesso ne traggono vantaggio. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare coach esterni in modo da non avere conflitti di interesse.

Il leader deve necessariamente mettere in atto un ascolto attivo attento alla comunicazione e alle forme non verbali. Sa cosa ascoltare e  cosa filtrare. Interroga con stupore potenziando le risorse del team e lasciando andare le credenze limitanti. Il leader considera l’interlocutore con una visione olistica, vede i suoi valori le sue credenze rispettandole.

Il leader pone domande anche scomode mirate ad evocare la consapevolezza. Esplora il pensiero dei suoi collaboratori per mettere in luce le risorse che serviranno a bypassare un ostacolo per rimodellare schemi mentali troppo basati sul sé 1 di Gallwey.

Aiuta quindi tutto il team a crescere e organizza frequenti retrospettive (in un’ottica Agile) in cui celebrare il lavoro svolto, spiega i key points e propone come utilizzare positivamente i fallimenti come opportunità di apprendimento.

Le tecniche di coaching applicate a queste tipologie di leader servono per una presa in carico a tutto tondo del team. La performance è del team , la crescita, la scelta della direzione da seguire  per il miglioramento continuo sono concetti che il leader porta a livello di gruppo, da uno a tutti, mantenendo però una visione olistica e un concetto di tutti come uno.

Il leader agisce quindi come coach nel senso del bene comune creando un substrato di condizioni in cui le persone possono germogliare da sole.

Conclusioni

La parola chiave è lasciare, tagliare fuori il sé 1 comunicando direttamente con il secondo sé definito da Gallwey così come il leader per stabilire una nuova relazione tra pari deve riferisci al suo bisogno interiore di cambiamento, questo è l’avvio del cambiamento.

I pinguini di P. Kotter lasciano non solo un iceberg diventato casa loro, ma anche un modo stabile di vivere, lo avevano imparato nel tempo ma non gli apparteneva davvero.

Reinventare il rapporto professionale tra team e leader ponendosi in una modalità leader-leader e introducendo un’ottica di interdipendenza in un contesto di mutuo aiuto, questa è la direzione.

I componenti del team sono leader di se stessi in una relazione basata sulla fiducia.

Le tecniche di coaching o meglio, il mindset del coaching, è strumento fondamentale per il leader nelle relazioni day-by-day al fine di implementare una comunicazione basata sull’ascolto. 

Il cambiamento quindi si espande da cambiamento interiore del leader a uno esteriore, come fuori così è dentro potremmo dire utilizzando la legge di corrispondenza di Ermete Trismegisto.

Bibliografia

  1. Giuffredi “L’onda del coaching”
  2. Marquet “Turn the ship around”
  3. Goleman “Intelligenza Emotiva”
  4. Gallwey “The inner game of tennis”
  5. Von Sharmer “La teoria U”
  6. D’anna “La scuola degli dei”
  7. Gilmore “Alice nel paese dei quanti”

Il coaching come strumento per la leadership agile (parte1)

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Introduzione

Lo stile di leadership, fortunatamente, sta cambiando. Si passa da una modalità di “command and control” ad una di “trust”. Il cambiamento, tanto necessario quanto etico, è sicuramente stato facilitato dall’ emergere di nuove metodologie di organizzazione del lavoro e di consapevolezza, tra queste l’Agilità ed il coaching.

Il leader non è solo colui che gestisce il team e da’ il ritmo, ma deve utilizzare le leve dell’intelligenza emotiva per entrare in relazione con gli altri, puntando al potenziamento dell’altro. Il leader-coach lavora col singolo ma nell’ottica del gruppo.

Di seguito vedremo come l’evoluzione della leadership può essere agevolata dall’utilizzo di tecniche di coaching per condurre i gruppi Agili  verso un livello di interdipendenza così come dettagliato da John Whitmore nel suo libro Coaching.

La leadership: verso quale cambiamento?

Se vogliamo vedere come un cambiamento di approccio nello stile di leadership abbia delle conseguenze positive, possiamo leggere il libro di D. Marquet “Turn the ship around”. In questo libro l’autore, ex comandante di sottomarini nucleari americani, si rende conto che il paradigma del “command and control” tipico dell’ambiente militare può essere sovvertito. Attraverso una “rieducazione” dalla forma di comunicazione il comandante riesce a far emergere le ottime competenze del suo equipaggio facendolo diventare un alleato. Marquet implementa un modello leader-leader in cui l’empowerment dell’equipaggio  non è avulso dall’emancipazione, dalla liberazione e dal riconoscimento delle capacità del singolo, della sua creatività e del suo valore come persona.

In sostanza empowerment è “un movimento da” e non “un movimento per”: un movimento da dentro e non uno per arrivare subito a qualcosa. Diverse altre fonti autorevoli tra cui Goleman, Kahnemann e Gallwey ci parlano di intelligenza emotiva, stato di flusso, dialogo interiore e interferenze. Von Sharmer attraverso la sua teoria U ci conduce in un viaggio per reinventare il nostro futuro lavorando su temi che possiamo trovare anche nel coaching.

Abbiamo quindi molte tecniche e conoscenze su come funziona l‘individuo e il gruppo.

I tempi, nelle aziende, sono sempre più veloci. Ciò che tecnologicamente è attuale oggi è vecchio tra qualche mese quindi è importante avere team performanti.

Il leader però può non essere più quella figura “grigia” che comanda le persone avendo in mente solo gli obiettivi aziendali ed il processo come unico indicatore di risultato.

Come può cambiare il suo stesso stile e cosa può fare sugli altri? Con quali effetti e soprattutto quali tecniche utilizzare?

Possiamo seguire diverse metodologie e mindset ma ritengo che l’agilità ed il coaching se messi a fattor comune possano fornirci un insieme di tecniche e principi per far evolvere il leader verso una modalità interdipendente in cui i team sono auto organizzati, il leader è anche coach, le persone sono al centro e ci si sposta verso un concetto di intelligenza collettiva tutto all’interno di uno stato di flusso.

Lo stato di flusso

Lo stato di flusso è un concetto spiegato molto bene da Daniel Goleman (psicologo, giornalista e scrittore statunitense) in un bellissimo video che è possibile trovare su youtube “The art of managing with emotions”. Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti (antifragile), attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene!

In questo stato le persone sono quindi antifragili: di fronte all’imprevisto non diventano più resistenti facendo comunque “muro”, ma evolvono, cambiano, si adattano tentando di vedere il cambiamento come opportunità.

Anche Paul Kotter ce lo mostra nel suo divertente cortometraggio sui pinguini, anche questo reperibile su youtube e intitolato “Our iceberg is melting”. Kotter vuole raccontarci le fasi principali per introdurre un cambiamento. In questo video emergono la necessità di essere antifragili di fronte ad un evento inaspettato e negativo per la nostra sopravvivenza, guardare avanti, comunicare, provare dandosi obiettivi misurabili e realistici, identificare le azioni e quindi ...partire.

Ecco che emergono concetti del coaching mindset...

In quanti siamo qui dentro

Gallwey nel suo libro “Il gioco interiore del tennis”, utilizzando la metafora del gioco del tennis e del giocatore che sta imparando, ci parla di due sé presenti dentro di noi. Il primo è quello giudicante, orientato alla performance e al successo, il suo obiettivo è quello di riuscire nell’intento ed è completamente rivolto verso l'esterno. E’ quella parte che è sempre attiva, che non si sa spegnere e che genera quel “chiacchiericcio interiore” che continua a farci pensare in qualunque momento ma che non ci serve, se non per tenere impegnata la mente, è un’interferenza. E’  come un leader che non si fida dei suoi collaboratori anche se sa benissimo che questi sono in grado di svolgere i compiti a loro richiesti. Tuttavia, per mantenere il controllo, organizza le loro attività, li monitora costantemente ed indica loro i passi da fare.

Il secondo sé ha capacità naturali che possono essere attivate con un pò di allenamento, si basano sull’istinto e sulla registrazione di ciò che osservano. L’osservazione e l’imitazione sono le sue prerogative, il rispecchiamento è una sua dote. Le neuroscienze ci insegnano che i neuroni specchio sono un meccanismo di apprendimento fondamentale.

Il primo sé non ha fiducia dell’altro, è un controllore, non ama seguire delle strade nuove. In pratica è la nostra parte che ha bisogno di sicurezza, è assolutamente fragile e poco capace di riconfigurarsi a fronte di eventi che lo portano a seguire strade nuove, ha il controllo ed è continuamente attivo. Ci trasmette un senso di sicurezza, lui sa come devono essere fatte le cose! In realtà pensa di saperlo perché spesso, pur provando e riprovando non gli vengono affatto bene!

Allora quando giochiamo a tennis e stiamo imparando, ad esempio, a fare il rovescio, ecco che il sé 1 cerca la regola, ripensa al manuale, controlla ogni muscolo al fine di far progredire il braccio così come la teoria insegna che dovrebbe essere e ricordandosi dei feedback avuti dagli allenatori. Siamo nella mente.

Nella stessa situazione, invece, il secondo sé sarebbe perfettamente in grado di cavarsela perché ha sperimentato diversi “rovesci”, alcuni con successo altri meno, ed ha registrato cosa fare nei casi di successo e l’insuccesso è comunque un apprendimento

Facendo un parallelismo con il leader, il leader controllore fa esattamente come il sé 1, mentre il leader che lascia spazio di sperimentare e di sbagliare non si muove su un piano mentale ma cerca nell’esperienza, come suggerito dall’agilità, prima di tutto gli esperimenti.

L’esperienza e la definizione degli esperimenti sono prerogativa del team, che è (si spera) più competente del leader in questi ambiti.

Il Giudizio

Accettato il fatto che siamo composti da più parti, come il divertente film della Disney Inside out ci ha fatto capire, come facciamo a scardinare il meccanismo e a far emergere uno stile di leadership più trust?

Abbandonando il giudizio.

Lo stile di leadership altamente controllante ha come effetto quello di disincentivare e deresponsabilizzare le persone. Il leader si sostituisce al cosiddetto follower che deve agire senza alcuna legittimazione e indipendenza.

Per questo leader disinnescare il giudizio vuol dire vedere la catena di eventi negativi non come tali e sollecitare una valutazione critica da parte di tutto il team, insomma come un giocatore di tennis che si guarda allo specchio per osservare gli errori nella sua impostazione.

Vuole anche dire aiutare il team ad osservarsi a fronte di eventi positivi, ripercorrere le azioni fatte e le sensazioni. Memorizzare soprattutto queste ultime possono aiutare le persone a ritrovare la motivazione a fronte di passaggi complicati nel progetto che stanno seguendo.

Lasciare spazio

Il passaggio successivo consiste nel lasciare spazio.

Il leader, che ora è riuscito a osservare e tenere da parte il giudizio, dovrebbe osservare le persone del team per rendersi conto di quello che realmente possono fare.

E’ molto probabile che in questa fase osservi cose mai viste prima!

Il leader sta andando verso l'informazione e non viceversa. Sta andando a vedere la “catena di montaggio” per osservare quanto le persone del team sono già in grado di organizzarsi e di compiere azioni non avendo alle spalle un “metronomo” umano, il leader.

Nella seconda parte dell'articolo vedremo come il coaching si integra per estendere le competenze del leader.