Smart Working da Remoto ma Agile

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Remote, Smart, Family Working…

Anzitutto un pò di chiarezza tra termini che parlano di lavoro da remoto ma che portano ad esperienze differenti. Il termine più usato e abusato è sicuramente smart working ma spesso con questo termine ci si riferisce al semplice remote working. Vediamo quindi le caratteristiche principali di queste metodologie.

Remote Working

Il remote working è quello che la maggior parte di noi fa in questo periodo di restrizioni, soprattutto chi lavorava in ufficio. Il luogo di lavoro è diventato la propria abitazione con un orario implicitamente gestito dal lavoratore. Si dovrebbe lavorare per obiettivi ma in realtà si lavora da casa con le stesse modalità utilizzate in ufficio. Questo sicuramente porta a inefficienza perché gli strumenti che si hanno sono diversi da quelli presenti in ufficio. Lavorare da remoto implicherebbe un diverso modo di interagire coi colleghi. Non è efficiente riempirla giornata di meeting, spesso “chiamati” al fine di controllare il lavoro degli altri.

In questo tipo di lavoro di fatto si sposta la location ed è quello che bene o male in molti abbiamo fatto, da un giorno all’altro, durante il primo lockdown.

Tutti i “supporti” per lavorare sono a carico del dipendente, tranne il pc aziendale.

Smart Working

Con il lavoro smart l’azienda passa (o dovrebbe passare) da una gestione della leadership basata sul “control” ad una più tendente al “trust”. Il lavoro è organizzato ad obiettivi, il luogo di lavoro è l’azienda o l’abitazione del collaboratore o altri luoghi. Con lo smart working l’azienda migliora la soddisfazione dei collaboratori interessati e ottiene ottiene un incremento delle performance. La differenza fondamentale è il concetto di trust. Definendo obiettivi si lascia al lavoratore l’organizzazione del proprio tempo che può quindi includere orari di lavoro autodeterminati (ad esclusione dei meeting) e la possibilità di gestire meglio il tempo personale. Si evitano così spostamenti spesso faticosi e di lunga durata che portano ad aumentare il fattore stress personale e ad una maggiore spesa per raggiungere il posto di lavoro.

Agile Working

Con il lavoro agile si implementano i concetti espressi nel manifesto sull’Agilità. Le persone (clienti e collaboratori) sono messe al centro, si lavora per raffinamenti successivi e si utilizzano esperimenti atti a convalidare o meno le ipotesi anziché scrivere a priori corposa documentazione che poi, puntualmente, dovrà essere modificata . E’ un mindset che da solo richiederebbe una serie di articoli e che coniuga, in una visione sistemica, il lavoro delle persone, intese come team, ad una leadership in completa modalità “trust” utilizzando l’intelligenza emotiva (vedi i numerosi libri di Goleman sul tema) come vettore di comunicazione anche non verbale.

Con “trust” intendo un stile di leadership in cui il leader è un facilitatore, quasi un coach. Non controlla le persone passo passo ma le aiuta a seguire l’obiettivo.

Non è una necessaria evoluzione dello smart working ma sicuramente aiuta a migliorare anche la serenità delle persone. Nel mio concetto di vita professionale questo risultato è già ampiamente sufficiente per giustificarne l’introduzione.

Family Working

Questo concetto di lavoro è stato formalizzato da non molto tempo, lo potete trovare anche qui. Possiamo riassumerne i concetti nei seguenti punti:

  • le tecnologie devono essere adeguate e le fornisce l’azienda 
  • l’orario diventa totalmente flessibile e gestito tramite calendario elettronico; chi vuole può modificarlo anche ogni mese
  • i rapporti tra colleghi si gestiscono solo tramite videochiamate dalla propria postazione di casa, in questo modo si garantisce il diritto alla disconnessione 
  • l’azienda dovrà mettere a disposizione strumenti concreti per incentivare il benessere fisico e mentale, dal monitoraggio dello stato di salute e dello stress alle attività di fitness quotidiano con il personal trainer a distanza 
  • ai dipendenti con figli l’azienda offrirà contenuti ed esperti dedicati che possano suggerire e gestire a distanza attività da svolgere con i bambini in questa complicata fase con le scuole chiuse

Nel concetto del family working l’azienda si fa più carico di fornire al collaboratore gli strumenti per lavorare al meglio, lo mette al centro quindi, come ci dice l’Agilità. E’ sicuramente vero che in una azienda dove tutti i lavoratori sono a casa si hanno grandi risparmi in termini logistici e strumentali: sono necessari spazi ridotti, reti meno potenti e le postazioni di lavoro possono essere gestite in sharing.

Parte di questi risparmi possono essere investiti nella salute e benessere del collaboratore aumentandone implicitamente il coinvolgimento e quindi la produttività.

La difficoltà di cambiare

Per chi lavora in una stessa azienda/ruolo d molto tempo, la consequenzialità di azioni, compiti, responsabilità, porta ad avere la sensazione di “sapere sempre dove mettere le mani” e “sapersi muovere in azienda”. Queste sicurezza ci tengono ancorati in una situazione professionale, immobili, tanto comunque là fuori è tutto uguale!

Da qui il disagio di cambiare la modalità in cui lavoriamo da quella in presenza presso l’azienda a remoto o mista.

Del resto amiamo le certezze perchè cambiare è faticoso. Anche in questo mio articolo https://www.agilethinking.it/2019/12/29/le-neuroscienze-e-il-cambiamento

ne parlo. Le neuroscienze ci dicono che la nostra mente tende a ripercorrere schemi conosciuti per fare meno fatica, per avere tutto sotto controllo.

La sicurezza, nello stesso tempo, è anche immobilità di pensiero ed azione. Occupiamo tutta la nostra quotidianità per soddisfare i bisogni professionali e personali senza avere mai un secondo libero e senza riuscire a rispondere ad una domanda fondamentale riassumibile in una parola: perché. Trovare, in altre parole, il senso e la soddisfazione in ciò che professionalmente facciamo dovrebbe essere molto più importante della sicurezza.

Recentemente abbiamo obbligatoriamente “messo dello spazio” nella nostra vita lavorando da casa a causa di alcuni lockdown. Abbiamo imparato, noi e le aziende, che possiamo lavorare anche senza mettere il lavoro al centro, piuttosto mettendo noi stessi. Chi può lavorare da casa forse lavora di più ma sicuramente si gestisce meglio il proprio tempo e le emergenze e non deve attraversare la città di corsa affollando i mezzi o aumentando il traffico per gestire i propri impegni personali.

Quasi magicamente ci accorgiamo di avere momenti liberi in più e più congeniali, possiamo utilizzare la pausa pranzo per fare sport o una passeggiata sotto casa, possiamo spezzare la giornata e allungare i tempi di lavoro in serata. Tutto ciò crea spazio, spazio per pensare non razionalmente, spazio per iniziare a dare risposte sul senso di ciò che facciamo. Quando siamo più sereni siamo più creativi perché siamo più vicini ad uno stato di flusso.

In questo stato le persone reagiscono molto bene all’imprevisto e riescono ad avere prestazioni elevate col minimo sforzo.

Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti, attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene! 

Tutti insomma ci guadagnamo, bisogna solo buttarsi.

Leadership remota

Analogamente anche lo stile di leadership deve adeguarsi al lavoro da remoto. il “trust” come già abbiamo detto deve diventare lo stile predominante, il leader deve comunicare tenendo conto che i tool virtuali possono facilitare o meno persone molto emotive.

I meeting non devono occupare ogni momento, soprattutto in un contesto di Agile Working, in cui l’esperimento è la parte importante. 

Non dobbiamo quindi portare in remoto il modo da lavorare che avevamo in presenza, ma trovare altre modalità.

Concentrarsi sugli obiettivi e non sulle singole attività, evitando il controllo e promuovendo il trust.

Non utilizzare troppi tool ma concentrarsi su quelli utili in base al team/progetto.

Infine, se compatibile con le policy aziendali, assicurarsi che le persone abbiano gli strumenti necessari a lavorare al meglio.

Il leader in questo caso è ulteriormente un facilitatore ed un coach. Deve facilitare la comunicazione e gestire momenti di retrospettiva (anche se non siamo in modalità Agile) in cui focalizzarci su quanto si è sperimentato in un certo periodo e come poterlo migliorare.

Le modalità di comunicazione poi non devono necessariamente essere sincrone.

Conclusioni

Distinguere lo stile di lavoro che stiamo attuando tra remote, smart, agile è il primo passo per capire dove vogliamo essere. Dare un senso a ciò che facciamo avvicinandolo al nostro modo di essere è la direzione auspicabile.

Naturalmente sono le stesse aziende a doversi incamminare verso una metà comune che ha come centro la persona. 

 

Fail-Safe oppure Safe-to-Fail: un confronto

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Introduzione

La domanda è: gestire i problemi che possono bloccare il sistema nel momento in cui si verificano (fail-safe) oppure fare in modo che i problemi “non abbiano effetto” (safe-to-fail)?

Dobbiamo costruire protezioni intorno al nostro sistema o fare in modo che gli “eventi negativi” siano in qualche modo utili per farlo evolvere?

In questo articolo vorrei confrontare il primo approccio (fail-safe) con il secondo (safe-to-fail) evidenziando le caratteristiche di ciascuno.

Il “sistema”

Definire la parola sistema in questo ambito è cosa già ardita quindi semplifichiamo, togliamo, come ci insegna l’Agilità.

Per sistema possiamo pensare ad un prodotto, alla nostra stessa vita, ad un programma software. Un “sistema” nelle sue fasi di realizzazione richiede dei passaggi intermedi atti a validare la strada che stiamo percorrendo. Altre volte il sistema è validato solo al termine del suo processo di realizzazione. 

Quale che sia il nostro mindset per realizzarlo, se il sistema è critico come facciamo a proteggerlo e proteggerci dalle situazioni critiche?

Fail-Safe

Nella subacquea, uno dei miei sport preferiti, per respirare sott’acqua un sub respira attraverso un erogatore collegato ad una bombola piena di aria. Cosa succede se l’erogatore si rompe? Il subacqueo deve precipitarsi in superficie senza aria? Potrebbe essere molto pericoloso soprattutto se siamo ad una profondità elevata. Se fosse così i progettisti di erogatori subacquei non avrebbero costruito un sistema fail-safe. Quello che succede nella realtà è che l’erogatore continua a fornire aria, ma la fornisce continuamente senza interruzione, generando un flusso di bolle che dà modo al subacqueo di risalire con una certa tranquillità in superficie. 

Il sistema è intrinsecamente fail-safe perchè a fronte di un evento critico, la rottura di un suo componente, va meccanicamente in una situazione “safe” per chi lo sta utilizzando.

Pensiamo ora ad un software in grado di gestire un aereo in fase di atterraggio. La prima cosa che mi viene in mente è: “che cosa deve succedere se non funziona?”. Forse anche qui come nel caso dell’erogatore, il sistema dovrebbe essere disattivabile in ogni momento dai piloti umani andando in una situazione safe.

In ambito cinematografico ci sono diversi film che mostrano cosa potrebbe succedere se un sistema con una catena di comando (es protocolli militari) non prevedono la gestione fail-safe, ad esempio: “A prova di errore” un film del 1964  oppure “Il dottor stranamore.

Quindi a volte è possibile costruire sistemi che in caso di failure vanno automaticamente in uno stato safe. Altre no. Per proteggere questi sistemi è necessario mettere in atto controlli, cambiare la modalità di implementazione in modo da ridurre gli errori. In informatica ad esempio il test driven development (tdd) è un approccio che prevede, prima ancora di iniziare a scrivere codice, la realizzazione di tutti i test ai quali il prodotto dovrà rispondere. Questo contribuisce a creare prodotti software di maggior robustezza.

Nelle aziende si utilizzano le teorie legate al risk management che è definito come “l'insieme di attività, metodologie e risorse coordinate per guidare e tenere sotto controllo un’organizzazione con riferimento ai rischi” e inoltre “Il risk management è un processo continuo, graduale e proattivo….”

La misurazione del rischio è necessariamente un calcolo di probabilità che quindi deve continuamente modificarsi in base all’evoluzione dei processi che va a monitorare. Per quanto accurato e come anche Taleb dice, non può mai darci una certezza.

Safe-to-Fail

Sebbene sia sempre stato un fan di Tesla, vorrei aprire questa sezione con un pensiero di Edison, i due si fronteggiarono lungamente nella loro vita.

Edison prima di riuscire a mettere a punto la lampadina al tungsteno fallì molte volte. Per lui però i fallimenti non erano eventi negativi ma semplicemente un modo modo per imparare come non fare qualcosa, in questo caso una lampadina.

L’esperimento per imparare, l’esperimento per arrivare a un prototipo (non al prodotto finale) e poi, nel caso peggiore buttarlo via e ricominciare.

Possiamo quindi fallire, ci è riconosciuta una libertà che ci permette di lavorare più tranquillamente.

Daniel Ek il fondatore di Spotify dice: "We aim to make mistakes faster than anyone else."

Ammettere l’errore anziché condannare chi lo ha commesso vuol dire anzitutto parlarne e stare su un piano di comunicazione positiva. 

Il problema con il fallimento è che pesa di più sul futuro. Anche se riusciamo ad entrare in un mood come quello espresso da Edison, è relativamente facile farlo per il passato mentre per il futuro è più difficile. A fronte di un fallimento ci auguriamo di non sbagliare ancora...

In quest’ottica è importante, almeno in un contesto aziendale, lo stile di leadership.

Leadership Safe-to-Fail

Il Ceo di Microsoft, Satya Nadella, a fronte di un notevole problema di immagine provocato da un errore di programmazione su Tay, il bot utilizzato per interagire con gli utenti Twitter, trasmise ai diretti responsabili il pensiero che dagli errori si può imparare ed è meglio fare scelte errate piuttosto che non farle.

Ogni volta che si parla di mindset e di cambiamenti i leader sono figure centrali. 

A questo proposito è sempre divertente e illuminante vedere su youtube il cortometraggio dei pinguini che cercano un altro iceberg su cui vivere quando capiscono che il loro si sta sciogliendo, è intitolato Our iceberg is melting di Paul Kotter. 

Il gruppo di pinguini leader, dopo alcune verifiche capiscono che non è attuabile la modalità Fail-Safe ovvero l’iceberg non può essere protetto dal calore. Allo stesso modo i futuri iceberg non potranno essere messi sotto una “campana di vetro”, una bolla che li proteggerà per sempre.

Decidono, con diversi passi, di attuare un cambiamento e approcciare il metodo Safe-to-fail. Scelgono un gruppo di giovani e forti pinguini che inizia ad esplorare gli altri iceberg nelle vicinanze. Per diversi giorni le esplorazioni saranno fallimentari!

Ma invece di scoraggiarsi i pinguini ne traggono un insegnamento che alla fine li condurrà alla meta.

Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza i pinguini leader e il loro mindset safe-to-fail. 

Conclusioni

Taleb definisce il "cigno nero" come un evento negativo e assolutamente imprevedibile.. Come tale, anzichè concentrarci sulle conseguenze per arginarle, meglio avere "sistemi" che a fronte di un evento "cigno nero" si possano riconfigurare traendone beneficio per migliorarsi. Proteggiamo quindi il nostro sistema e ci ostiniamo a calcolare la probabilità del “cigno nero”  oppure andiamo verso un approccio sperimentale in cui ci saranno sicuramente fallimenti e modifiche al nostro percorso prima di arrivare al successo?

L’ambito è determinante, la cultura aziendale anche, ma soprattutto l’apertura al cambiamento.

Partendo quindi dal “perché”, "perché devo cambiare approccio?", e verificare attraverso una serie di esperimenti se è possibile utilizzare la modalità safe-to-fail costruendo un sistema che può fallire. Se siamo in un ambito critico e quindi il sistema non può fallire perché, ad esempio, metterebbe a rischio l’incolumità di qualcuno, allora l’approccio safe-to-fail può comunque aiutarci a costruire prototipi sempre più resistenti al “cigno nero”.

Resisto e mi preparo a fronteggiare il nemico oppure lo accolgo e provo a farci "amicizia"?

Agilità, leadership e gioco del tennis

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Introduzione

Imparare un nuovo mindset, come quello Agile, vuol dire cambiare e quindi abbandonare abitudini probabilmente radicate.

Perché farlo?

Se lo facciamo perché questa è la tendenza del momento, la moda, il così fan tutti, il nostro cambiamento probabilmente non durerà molto e avanzerà con passi rigidi e instabili, ma ben controllati. Seguiremo regole ricavate da innumerevoli corsi e manuali per darci una sensazione di controllo. In altre parole studio come applicare il cambiamento.

Se invece lo facciamo guidati da una profonda necessità interiore di cambiamento allora siamo già sulla strada giusta. 

La leadership e l’Agilità sono temi di cui si parla molto.

Come diventare quindi Agili e assumere uno stile di leadership che sia basato sul trust anziché sul control lasciandosi andare?

Facciamo alcune riflessioni aiutati dal percorso che Timothy Gallwey (ex allenatore di tennis, coach e saggista) ci ha descritto nel libro Il gioco interiore del tennis.

Dobbiamo solo disimparare le abitudini, per poi lasciare che succeda

L’obiettivo, come detto, è cambiare il nostro modo di agire. Un cambiamento esteriore non è mai duraturo se non preceduto da un cambiamento più profondo. 

Cambiare “in profondità” è difficile per vari motivi, oggettivi e soggettivi. Tuttavia, senza voler fare un trattato di psicologia, è certo che possiamo iniziare a cambiare agilmente, ad iterazioni successive, concentrandoci su risultati misurabili: risultati non performance!

Si perché il passo è breve. La ricerca di un risultato implica sperimentare, agire e spesso fallire. Il focus non è la certezza del risultato, non cerchiamo garanzie, il focus è il processo, il percorso che attraverso le sue innumerevoli sconfitte ci porta ad apprendere. Siamo soliti pensare che se sbagliamo allora stiamo fallendo. Questo è solo un modo di vedere l’evento negativo. E se iniziassi a pensare che sto semplicemente imparando un nuovo modo per non fare quella cosa? 

In quanti siamo qui dentro

Utilizzando la metafora del gioco del tennis e del giocatore che sta imparando, possiamo vedere la nostra mente come separata in due, i due sé come li definisce Gallwey. Il primo è quello giudicante, orientato alla performance e al successo, il suo obiettivo è quello di riuscire nell’intento ed è completamente rivolto verso l'esterno. E’ quella parte che è sempre attiva, che non si spegne e che genera quel “chiacchiericcio interiore” che continua a farci pensare a qualcosa in qualunque momento ma che non ci serve, se non per tenere impegnata la mente. E’  come un leader che non si fida dei suoi collaboratori anche se sa benissimo che questi sono in grado di svolgere i compiti a loro richiesti. Tuttavia, per mantenere il controllo organizza le loro attività, li monitora costantemente ed indica loro i passi da fare. 

Il secondo sé ha capacità naturali che possono essere attivate con un pò di allenamento, si basano sull’istinto e sulla registrazione di ciò che osservano. L’osservazione e l’imitazione sono le sue prerogative. 

Il primo sé non ha fiducia dell’altro è un controllore, non ama seguire delle strade nuove. In pratica è la nostra parte che ha bisogno di sicurezza, è assolutamente fragile e incapace di riconfigurarsi a fronte di eventi che lo portano a seguire strade nuove, ha il controllo ed è continuamente attivo. Ci trasmette un senso di sicurezza, lui sa come devono essere fatte le cose! In realtà pensa di saperlo perché spesso, pur provando e riprovando non gli vengono affatto bene!

Allora quando giochiamo a tennis e stiamo imparando, ad esempio, a fare il rovescio, ecco che il sé 1 cerca la regola, ripensa al manuale, controlla ogni muscolo al fine di far progredire il braccio così come la teoria insegna che dovrebbe essere e ricordandosi dei feedback avuti dagli allenatori. Siamo nella mente.

Nella stessa situazione, invece, il secondo sé sarebbe perfettamente in grado di cavarsela perché ha sperimentato diversi “rovesci”, alcuni con successo altri meno, ed ha registrato cosa fare nei casi di successo. 

Facendo un parallelismo con il leader, il leader controllore fa esattamente come il sé 1, mentre il leader che lascia spazio di sperimentare e di sbagliare non si muove su un piano mentale ma cerca nell’esperienza. Quest’ultima spesso arriva proprio dal team, che è competente. 

Il Giudizio

Accettato il fatto che siamo composti da più parti, come il divertente film della Disney Inside out ci ha fatto capire, come facciamo a scardinare il meccanismo  e a far emergere uno stile di leadership più trust?

Abbandonando il giudizio.

Un processo di trasformazione è costellato di successi ed errori. Il fatto che un evento sia a noi favorevole o meno è un giudizio soggettivo che va al di là del senso dell’evento stesso.

In un caso o nell’altro una parte di noi, quella che controlla, tenterà di decodificare l’evento per capire cosa modificare per ottenere un risultato favorevole la prossima volta.

A fronte di una particolare catena di eventi negativi si aggiungerà anche una sfiducia generalizzata che spesso viene rivolta agli altri. Questa stessa fiducia si trasformerà in breve tempo in profezia, instaurando un pericolosissimo ciclo che si auto-alimenta.

Possiamo identificare in questo comportamento lo stile di leadership altamente controllante che ha come effetto quello di disincentivare e deresponsabilizzare le persone. Il leader si sostituisce al cosiddetto follower che deve agire senza alcuna legittimazione e indipendenza.

Per questo leader disinnescare il giudizio vuol dire vedere la catena di eventi negativi non come tali e sollecitare una valutazione critica da parte di tutto il team, insomma come un giocatore di tennis che si guarda allo specchio per osservare gli errori nella sua impostazione.

Vuole anche dire aiutare il team ad osservarsi a fronte di eventi positivi, ripercorrere le azioni fatte e le sensazioni. Memorizzare soprattutto queste ultime possono aiutare le persone a ritrovare la motivazione a fronte di passaggi complicati nel progetto che stanno seguendo.

Lasciare spazio

Il passaggio successivo consiste nel lasciare spazio.

Il leader, che ora è riuscito a osservare e tenere da parte il giudizio,  dovrebbe osservare le persone del team per rendersi conto di quello che realmente possono fare.

E’ molto probabile che in questa fase osservi cose mai viste prima!

Il leader sta andando verso l'informazione e non viceversa. Sta andando a vedere la “catena di montaggio per osservare quanto le persone del team sono già in grado di organizzarsi e di compiere azioni non avendo alle spalle un “metronomo” umano, il leader. Se ci concentriamo totalmente su regole, principi del manifesto Agile, manuali e webinar otteniamo un’esperienza assolutamente teorica. Applichiamo una teoria solo per essere certi di avere tutto sotto controllo, invece dovremmo riscoprire un processo di apprendimento naturale.

Cambiare il modello di leadership

L’armonia tra i due sé si ha quando la mente è calma e focalizzata, Goleman lo definisce lo stato di flusso. Solo allora si può raggiungere una performance ottimale.  

Lo psicologo umanista Abraham Maslow ha chiamato tali momenti “esperienze culmine”. Nella sua ricerca sulle caratteristiche comuni tra le persone che hanno vissuto simili esperienze, riferisce le seguenti descrizioni: «Si sente più integrato» [i due sé diventano uno], «si sente un tutt’uno con l’esperienza», «si sente al culmine delle sue potenzialità», «pienamente funzionante», «a pieni giri», «senza sforzo», «libero da ogni blocco, inibizione, cautela, paura, dubbio, controllo,

autocritica, freno», «è spontaneo e più creativo», «più presente», «non si sforza, non ha bisogni, non ha desideri… si limita a essere».  In sintesi, “armonizzare i due sé” richiede che la mente venga rallentata. Calmare la mente significa meno pensiero, calcolo, giudizio, preoccupazione, paura, speranza, sforzo, rimpianto, controllo, agitazione o distrazione. La mente è quieta quando è ferma nell’ora e nel qui, e attore e azione sono un tutt’uno.

Let it happen

La parola chiave è lasciare. Bisogna quindi tagliare fuori il sé 1 comunicando direttamente con il secondo sé definito da Gallwey così come il leader per stabilire una nuova relazione tra pari deve riferisci al suo bisogno interiore di cambiamento. Questo è il motore del cambiamento che va trasmesso agli altri.

Il leader quindi cambiando il suo approccio cambia la comunicazione e lascia spazio anche agli altri.

Si instaura una relazione leader-leader dove, appunto, i componenti del team sono leader di se stessi in una relazione che ormai è passata la trust (fiducia).

Il cambiamento quindi si espande da cambiamento interiore del leader a uno esteriore, come fuori così è dentro potremmo dire utilizzando la legge di corrispondenza di Ermete Trismegisto.

Fixed Date nei Progetti Agili

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Introduzione

Quando si pensa ai progetto “Agili”, realizzati con un qualsiasi framework, il pensiero successivo è “perdo il controllo”. Non ho più date fisse e il budget non è sotto controllo. Me lo sono sentito dire molte volte, come se agilità fosse un sinonimo di improvvisazione.

Niente di più sbagliato!

Vedremo anzitutto come le date variabili possono essere fonte di incertezza e possono creare anche più problemi; allo stesso tempo chiariremo il dubbio su tempi e costi di un progetto agile.

Date, Budget, Scope

In un articolo a proposito della gestione delle date fisse nei progetti Agili, Ron Jeffries, scrive: ”It's not that we don't have enough time. We have too much to do.”

Mantenere i tempi ed aumentare il carico di lavoro prima o poi fa “scoppiare il team”: rende le comunicazioni pessime e diminuisce la proattività del team. Questi sono dati ottenuti da varie fonti autorevoli che si occupano di teamwork e di soft skills, cito Goleman piuttosto che Scharmer. 

In questo tipo di situazione è il management che deve intervenire perché il suo compito è quello di identificare gli obiettivi e identificare risorse e persone necessarie a raggiungerli in modo razionale e pianificato. Non si tratta di puntare a caso il dito sul calendario, fissare una data e poi costruirci intorno un processo di sviluppo che, in molti casi, non la potrà soddisfare.

Del resto il management non può e non deve neanche delegare il team a identificare una data perché farlo vorrebbe necessariamente dire delegare anche l’autorità per gestire risorse e persone al fine di centrare la data. E’ chiaro che stiamo chiedendo al team di fare il manager. In realtà il team può solo fare il manager di se stesso e dei suoi compiti relativi al processo di sviluppo. Infatti per poter centrare una data di rilascio sarebbe necessario avere il controllo delle persone e delle features (dello scope).

Quindi il manager dovrebbe assumere un ruolo differente ed entrare in un’ottica di facilitatore. La responsabilità di gestione della data rimane la sua con l’aiuto del product owner.

Le variabili in gioco sono quindi tre, la data, lo scope ed il budget, rappresentabili con un triangolo:

Avere una data fissa per una certa release a volte aiuta, altre è proprio necessaria. Il rilascio di una funzionalità o di un prodotto potrebbe infatti coinvolgere più uffici, non solo il team di sviluppo, anche il marketing o la logistica che devono organizzare i propri piani di lavoro per arrivare all'obiettivo. Se non avessimo quella data stabilita potrebbe essere, ad esempio, impossibile far partire delle campagne pubblicitarie per il prodotto che stiamo rilasciando.

Stabilito quindi che è possibile gestire le date fisse, come gestiamo le altre due grandezze, budget e scope?

Anzitutto fissiamo il budget. In genere il business e l’it amano fissare il budget per ogni progetto al fine di avere quella sensazione di “ho tutto sotto controllo”. In realtà invece spesso si sfora con il budget perché le modifiche richieste sono spesso numerose ed impattanti. Consideriamo comunque, ai nostri fini, che il budget sia stato stabilito. In ogni caso stakeholder e eventuali sponsor dovrebbero sapere quanti soldi voglio investire nel progetto.

Come gestiamo lo scope?

Come per le altre due variabili possiamo fissarlo o renderlo variabile. Uno scope variabile ci permette di gestire i cambiamenti e le richieste di modifiche che, da manifesto agile, dovrebbero essere ben accolte. Ma accettare il cambiamento e accompagnarlo attraverso la rimodulazione dello scope, cosa che nell’agilità si fa attraverso il product backlog, è il primo passo per essere antifragili.

Quindi se il nostro obiettivo, mantenendo un focus variabile, è quello di avere una data ed un budget fissi, necessariamente dobbiamo avere il controllo sul team di persone, potendolo anche rinforzare, considerando sempre la legge di Brooks:  aggiungere forza lavoro ad un progetto software in ritardo, lo farà ritardare ancora di più.

Conclusioni

Tenendo in mente il nostro triangolo e fissata la data ed il budget, manteniamo variabile lo scope di progetto.

Lo facciamo attraverso un backlog di prodotto che cambia nel tempo in base alle richieste del business e dei clienti e anche all’andamento del progetto stesso. Alcune features potrebbero ad esempio essere tolte dal pb se non sono di primaria importanza e se il tempo o il costo di progetto sta aumentando troppo.

Lo scope quindi è il nostro strumento per essere antifragili e per rispondere alle avversità che sicuramente incontreremo, siano esse tecniche, che di persone.

I progetti agili permettono di far variare forma al triangolo vedendo appunto lo scope variabile. 

Report Agilità 2020: cosa ci racconta?

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In Quale scenario viviamo? L’Incertezza

Un nuovo approccio è necessario da quando abbiamo esponenzialmente aumentato la nostra “velocità” di vita personale e professionale. Le tecnologie cambiano rapidamente, più della velocità di adattamento delle aziende che non utilizzano framework di gestione del progetto flessibili al cambiamento stesso, come mostra questo grafico.

Secondo i risultati forniti da IBM, il 90% dei dati disponibili  nel mondo sono stati prodotti negli ultimi due anni e ogni giorno vengono creati 2,5 quintilioni di byte dove un quintilione è pari a un miliardo di triliardi, ovvero 10 elevato alla 30, che corrispondono più o meno al download di mezzo miliardo di film in HD.

Viviamo quindi in un contesto altamente fluido in cui non possiamo avere certezza che la situazione odierna sarà la stessa che troveremo alla fine del nostro progetto.

Dobbiamo quindi essere antifragili, accettare il cambiamento ed utilizzarlo per evolvere.

Recentemente è stato pubblicato il quattordicesimo report sullo stato dell’Agilità, vediamo cosa dice…

Il Campione

I dati sono ottenuti da interviste fatte in aziende worldwide, il 41% delle quali ha meno di 1000 dipendenti. Tra queste il 36% sono aziende software. Gli altri range aziendali per numero di dipendenti sono il 19% tra 1000 e 5000, il 15% tra 5000 e 20000, il 25% sopra i 20000.

La maggior parte delle persone che hanno risposto al questionario sono scrum master, seguiti da PM, manager, team di sviluppo (nei diversi ruoli).

La maggior parte delle aziende dice che meno della metà dei propri team usa Agile.

L’aspetto interessante è che l’81% degli intervistati dicono che i loro team non sono co-locati ma lavorano da remoto. Questo dato è antecedente l’evento corona virus, quindi ci fa capire come la stessa agilità sta cambiando lasciando spazio a chi crede che la presenza non sia sempre necessaria.

Un altro aspetto interessante, che spesso viene richiesto è: come posso misurare il successo della trasformazione di uno o più team verso l’agilità?

Sebbene i KPI varino molto da una realtà aziendale all’altra e possano essere identificati andando ad intervistare direttamente il team, il report ci racconta quanto segue.

Il 58% risponde che il successo viene misurato attraverso la soddisfazione del cliente. Agilità infatti è anche maggior coinvolgimento del team e del cliente che attraverso i review meeting controlla a intervalli di “breve” durata la corrispondenza con le aspettative del cliente. Di seguito abbiamo il business value. Rilasciando spesso chiaramente si arriva prima a rilasciare “valore” e ad avere un ROI (return of investment) che, potenzialmente potrebbe anche autofinanziare il progetto.

Il report delinea anche i tool utilizzati maggiormente dai teams agili, ma vediamo quali sono i principali benefici, secondo gli intervistati, rispetto all’adozione dell’agilità.

Benefici Agili

Cambiamenti nelle priorità di business

Il 70% dei rispondenti al sondaggio attribuisce agli approcci agili la capacità di gestire i change delle priorità di business, del resto sappiamo tutti che le specifiche stile waterfall non sono stabili fino alla fine del progetto. In Agile il product backlog gestito dal p.o. è lo strumento per governare i cambiamenti nelle priorità di business. Il team poi accoglie questi cambiamenti gestendoli negli sprint.

Avere questa libertà è un grande vantaggio che consente al business dell’azienda di far procedere il progetto secondo piani di breve durata e non lunghi mesi o anni.

Visibilità sul progetto

Non serve il project manager, le informazioni sono appese alla parete o virtualmente. Può sembrare una provocazione ma nei progetti agili ci sono alcuni strumenti che consentono sempre al team di verificare lo stato del progetto. Ci sono poi metriche come il burndown chart e il control chart che aiutano il team ad avere importanti informazioni.

Allineamento It-Business

Il 65% pensa che i progetti agili migliorino la relazione tra it e business.

I progetti infatti seguono un approccio value-driven diversamente da quello dei progetti tradizionali che è plan-driven: ogni iterazione produce un incremento di prodotto autoconsistente e potenzialmente rilasciabile

  • minimizzando sprechi ed attività che non producono valore (priorità basse nel PB)
  • accolgono i cambiamenti come potenziali opportunità per produrre maggiore valore basandosi sulle evoluzioni del mercato e/o sui feedback del cliente
  • prevedono una strettissima e costante collaborazione con il business: il Product Owner è parte del team ed uno dei suoi compiti è fare in modo che il team comprenda i requisiti, condivida la vision e gli obiettivi del progetto
  • il backlogdi prodotto è costantemente prioritizzatoviene prodotto prima ciò che crea più valore

A questo punto è evidente che il team lavora su ciò che davvero genera valore e che conta per tutto il team.

E il Team?

Il morale dei membri del team risulta sensibilmente migliorato per il 61%

  • la possibilità di autogestirsi ed auto-organizzarsi da spazio alla creatività, all’innovazioneed alla possibilità di mettere a frutto la propria esperienza
  • un team cross-funzionale amplifica le possibilità di apprendimentoreciproco da parte dei membri
  • un ritmo sostenibile di lavoroprotegge le persone da eccessivo stress e gli consente di bilanciare lavoro e vita privata aumentandone il benessere
  • il modello di Servant-Leadership, contrapposto allo stile Command-and-Control, consente ai membri del team di accrescere la propria autonomia, l’autostima, l’impegno ed il senso di responsabilità
  • il generale clima di fiduciarispetto accresce la soddisfazione ed il benessere
  • lo stile di comunicazione trasparenteface-to-face (anche virtuale) accresce la coesione e riduce incomprensioni e conflitti
  • la condivisione di vision ed obiettivi con il cliente accresce motivazione e senso di appartenenza
  • la co-locazione non è più un vincolo.

Tutti questi aspetti creano un “ambiente” fisico, virtuale e di relazione che permette alle persone di lavorare bene. Naturalmente è impossibile averlo se tutta l’azienda, col suo management, non è coinvolta nel processo di trasformazione agile. In caso contrario avremo infatti scrum master che spingono in una direzione e project manager che si intromettono per portare il team su binari tradizionali.

Altri interessanti aspetti vengono evidenziati dal report. Possiamo comunque trarre una conclusione generale, l’agilità si conferma un mindset che funziona, se applicato in modo pervasivo nell’azienda. Quest’ultima, nel management deve accettare un nuovo modo di gestione della leadership che sia “diffuso” e condiviso.

Si va quindi verso una servant leadership oppure una no leadership…?

Riferimenti

State of Agile report 2020

Leadership e “Stato di Flusso” dei team

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Introduzione

I team sono gruppi di persone con uno stesso obiettivo. I team sono gestiti, nelle aziende, da diverse figure, in base alla modalità di lavoro adottata, ma in ogni caso le persone che costituiscono un team interagiscono, realizzando una interdipendenza “sociale” e non solo tecnica, i risultati dipendono da tutti e non solo dal singolo. Per raggiungere gli obiettivi prefissati e secondo Johnson & Johnson “Learning together and alone” [3] un team ha bisogno che tutti i suoi membri costruiscano relazioni di “qualità”.

In questo articolo vedremo quali sono le basi di interdipendenza sociale, quali sono gli elementi su cui lavorare per migliorarla e come deve agire il leader del team.

Emotional Intelligence and Team Work

Abbiamo detto che un team è un gruppo di persone, ma un gruppo di persone è un team? No, non sempre. Allora quali sono le caratteristiche che lo definiscono tale? Avere un comune obiettivo? Anche un gruppo di amici che gioca insieme (calcio,volley, ecc) ha un comune obiettivo, ma non necessariamente è un team.

Julio Velasco, ex allenatore della nazionale italiana di pallavolo, in un breve e bel talk che potete trovare su YouTube [3] ci spiega la differenza. In un team devono essere chiaramente definiti i ruoli e le interazioni tra di essi: le persone sono mosse da uno “spirito” comune. 

Lo “spirito” non è una competenza tecnica è una skill da sviluppare all’interno del team, da parte del leader, con tecniche che vedremo più avanti.

In un team si analizza di frequente il percorso: cosa va bene e cosa va male. Se qualcosa va male cerchiamo i problemi o cerchiamo i colpevoli? Ci sono meccanismi in grado di gestire i problemi e gli errori che intervengono al momento opportuno? Se ci sono, allora anche gli errori fanno parte di un processo di apprendimento; altrimenti i processi “errati” si ripeteranno.

Edison, noto inventore statunitense, nel tentativo di mettere a punto la lampadina ad incandescenza, dopo una cospicua serie di fallimenti disse a chi lo accusava di non essere riuscito nei suoi intenti: “Non ho fallito. Ho solamente provato 10.000 metodi che non hanno funzionato.

Quando parliamo di team non stiamo parlando solo di skill tecniche o di know-how derivato dall’esperienza professionale, i team per essere proattivi, positivi ed in evoluzione necessitano che le persone abbiano un buon livello di intelligenza emotiva al fine di creare quel “denominatore comune” di cui abbiamo appena parlato. 

Secondo Goleman [6] l’intelligenza emotiva è composta da 5 elementi: auto-consapevolezza, auto-regolazione, empatia, motivazione e social skills. Vediamoli in dettaglio. 

Self-awareness

L’auto-consapevolezza è la consapevolezza del proprio stato interiore inteso come insieme di emozioni e di vissuti. L’abilità di essere consci dei meccanismi dei nostri pensieri. Una migliore consapevolezza di noi stessi porta, di riflesso, a capire meglio gli altri.

Self-Regulation

E’ l’abilità di gestire le emozioni per facilitare l’avanzamento del progetto assegnato al team.

Nei conflitti, quando si è sotto pressione e con un alto livello di stress è importante auto-regolarsi al fine di mantenere un buon clima di lavoro.

Motivation

La motivazione consente di aiutare i membri meno esperti del team a contribuire al raggiungimento dell’obiettivo. Come vedremo le emozioni sono contagiose e la capacità di “contagiare” la motivazione porta il team a risultati decisamente migliori.

Empathy

Secondo Goleman l’empatia è la capacità di comprendere e di interpretare le emozioni degli altri, nel caso di un team quelle dei colleghi, capire gli altri punti di vista derivanti dai vari vissuti personali.

Social Skills

Le social skills ci servono per cogliere le energie del gruppo in modo sistemico, interagire con altri membri del team, identificare i conflitti in modo consapevole e gestire le tensioni che hanno un impatto negativo sul progetto su cui il team è focalizzato. Attraverso queste skills riusciamo a cooperare e costruire un pensiero positivo e collaborativo all’interno del team.

La comunicazione invisibile nel team

La figura centrale del team è il leader che agisce come motivatore e coach del team. I cinque elementi dell’intelligenza emotiva sono il linguaggio non verbale del team. Attraverso questa forma di comunicazione il leader può mantenere il team in uno “stato di flusso” che porta tutti i componenti a “contagiarsi emotivamente” e a lavorare in un clima decisamente più proficuo. 

 

La ricetta per perseguire questo risultato è quella di avere un team composto da persone che lavorano agli obiettivi che l’azienda ha deciso in un ambiente altamente comunicativo, con le emozioni messe a fattor comune. 

L’esecutore materiale di questa ricetta è il leader che deve quindi conoscere molto bene tutti questi ingredienti.  

Nell’articolo scritto da Buckingham e Goodall, The Power of Hidden Teams, [1] leggiamo  come ricerche degli anni 80 e 90 dello scorso millennio, portate avanti dalla Gallup Organization (una società americana di analisi e consulenza),  per avere individui motivati è necessario avere obiettivi chiari, sicurezza del futuro e human attention da parte del leader nei confronti del team.

Con l’avvento dell’Agilità abbiamo assistito all’emergere di diverse metodologie per la gestione dei team in un’ottica di leadership diffusa. Le persone sono, in questo mindset, poste al centro e quindi riconosciute come elemento fondante di tutto il processo di cambiamento, ne consegue che il loro benessere è fondamentale.

Possiamo quindi porci una domanda fondamentale. 

Cosa vuol dire avere team che “stanno bene”?

Vuol dire creare una situazione di “risonanza” emotiva all’interno di un gruppo di persone al fine di mantenere uno stato di benessere tale da avere conseguenze positive su ciò che si sta facendo, sul progetto, sul singolo task, nei rapporti tra i componenti del team.

Appartenere ad un team raddoppia già di per sé il livello di coinvolgimento [1] infatti le persone si sentono “di appartenere” a qualcosa di tangibile si essere utili direttamente a qualcuno che possono vedere, anche se da remoto, e con cui possono confrontarsi.

Far parte di un team vuol dire essere in una micro-realtà che non necessariamente deve allinearsi alla cultura aziendale. I team sono anche luoghi in cui “ci si lamenta” e in cui si definiscono dinamiche interne non sempre allineate con l’esterno, ma comunque efficienti e funzionanti.

Esaminiamo quindi quali sono i key factors per avere un team in un “buon stato di salute” e soprattutto cosa deve fare un leader per contribuire a avere team di questo tipo.

Ci sono diversi aspetti che possiamo riassumere in questi punti:

  1. Creare nel team ciò che Goleman chiama lo stato of flusso (flow state)
  2. Il leader deve trasmettere fiducia (trust)
  3. Human attention,(sentirsi visti)
  4. Il lavoro prima della location (smart work, family work)

The Flow State

Lo stato di flusso è un concetto spiegato molto bene da Daniel Goleman (psicologo, giornalista e scrittore statunitense) in un bellissimo video che potete trovare su Youtube “the art of managing with emotions”. Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti, attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene!

In questo stato le persone reagiscono molto bene all’imprevisto, non in modo “resiliente” concetto a mio avviso da superare, ma in modo antifragile. In altre parole l’imprevisto non ci porta a costruire una corazza ancora più forte o a farci “rialzare” in un modo più determinato, ma va utilizzato come evento, per guidare il cambiamento. L’antifragilità prospera nel disordine e ci spinge a costruire sistemi differenti o modalità di lavoro/comportamento che siano più adeguate alle circostanze.

L’arte della leadership quindi è quella di creare i presupposti per tenere le persone nel loro “stato migliore” per lavorare bene ed essere sereni. Troppo lavoro, poco tempo e poca motivazione vanno nella direzione opposta. Come fare quindi? Secondo Goleman utilizzando uno strumento molto potente (che vedremo tra poco) e seguendo alcune linee guida:

  • chiarire gli obiettivi
  • fornire feedback frequenti
  • apprendimento continuo
  • assegnare i task alle persone in base alle loro competenze tecniche
  • assegnare i task considerando il livello personale di ingaggio (faccio quello che mi chiedi perché mi interessa)

Obiettivi chiari sono alla base non solo di una buona gestione dei team ma anche del progetto. Stiamo attenti a non confondere l’obiettivo con la strada da percorrere. L’obiettivo è il fine, ma i percorsi possono essere diversi. Dipendono non solo dal framework di progetto ma anche dai singoli “gestori di progetto”. Cambiare l’obiettivo del progetto destabilizza e cambiarlo in continuazione porta a un disorientamento che, se ripetuto, demotiva le persone.

Durante il percorso per raggiungere l’obiettivo è importante fornire dei feedback altrettanto chiari e continui ai membri del team. Il feedback comunica implicitamente ad una persona il messaggio “ti vedo” ho visto ciò che hai fatto.

L’apprendimento continuo non vuol solo dire essere al passo con la tecnologia. Qui si parla di apprendimento tecnico ed emotivo, si parla quindi anche di momenti in cui si chiariscono i conflitti o ci si confronta sulle modalità con le quali si approccia al problema. Investire in formazione permette di avere persone più motivate e ricollocabili su diversi progetti.

Infine l’assegnazione dei task. In genere segue il ragionamento: assegno questo task a chi ha le skills giuste per portarlo a termine nel tempo richiesto. C’è però un secondo parametro da valutare, il livello personale di ingaggio.

Una persona potrebbe essere il massimo esperto di una determinata tecnologia, ma la utilizza da anni. Risolve i problemi in un attimo e i nuovi sviluppi li porta a termine centrando sempre l’obiettivo. Ci siamo mai chiesti se è felice di utilizzarla ancora? E se volesse lavorare con altre skills tecnologiche, magari già conosciute? Stiamo quindi mettendo l’azienda al centro o la persona?

I task vanno, in conclusione, assegnati in modo chiaro e ogni persona del team deve capire bene cosa ci si aspetta da lui/lei.

Ma Goleman ci ha “promesso” un utile strumento, quale?

Lo strumento a disposizione del leader è il meccanismo dei neuroni specchio che ci connettono in modo silente alle altre persone e che attivano un “dialogo” non verbale. 

I neuroni specchio

La scoperta dei neuroni specchio risale a fine anni 90 e ha evidenziato come su alcune specie di scimmie (macachi) si attivano le stesse aree cerebrali sia compiendo un’azione che osservandola in un proprio simile. Negli anni successivi sono stati fatti ulteriori esperimenti per ampliare la conoscenza sui neuroni specchio nelle emozioni e anche agli esseri umani. E’ stato quindi dimostrato, ad esempio, che quando osserviamo certe emozioni o le proviamo, le stesse zone neurali si attivano. 

Questa scoperta è molto importante per chi deve gestire dei team. Vuol dire, ad esempio, che se io sono un leader verbalmente aggressivo, attiverò nelle persone del team gli stessi neuroni che io in quel momento ho attivi, inducendo reazioni analoghe al mio comportamento (aggressività) o un silenzio legato alla conseguente soggezione che provoco nei membri del team. 

Il leader quindi diventa ancora più centrale. 

Non è solo importante ciò che fa, ma come lo fa, come lo dice, quale gestualità e quale emozione porta nel gruppo.

I neuroni specchio sono il meccanismo, o come dice Goleman, l’arma segreta che un leader ha a disposizione per creare la connessione sul piano emotivo con tutto il team. Per questo si dice che le emozioni sono “contagiose”. 

In questo senso si parla di “risonanza emotiva”. La frequenza di risonanza di un oggetto è una caratteristica fisica che ci permette di far vibrare l’oggetto anche senza toccarlo. In altre parole, se emetto un suono che fa vibrare un bicchiere di vetro, quando raggiungo la frequenza di risonanza propria di quel bicchiere, le vibrazioni aumenteranno sempre di più. La frequenza di risonanza ha quindi il potere di indurre ed aumentare lo stato di vibrazione di un oggetto.

Risonanza emotiva è quindi quella capacità, che dovrebbe appartenere al leader di un team, di far “vibrare” le persone sulle corde emotive che si stanno stimolando. Non si tratta solo di essere e mostrarsi felici per indurre felicità, bisogna farlo in un modo più sottile, andando ad intercettare le “frequenze” di risonanza di ciascun membro al fine di ottenere questo effetto.

Il leader deve trasmettere fiducia (trust)

La fiducia è una qualità che il leader deve conquistare a livello profondo. Non deve essere un generico senso di fiducia ma la sensazione che il leader abbia ben presente le caratteristiche di ogni team member e che le sappia utilizzare nell’interesse, soprattutto, della persona.
“Il mio team leader conosce bene ciò che mi appassiona e possibilmente organizza il mio lavoro intorno a ciò”. 

La human attention (sentirsi visti)

Questo tema è molto collegato al precedente, al trust verso il leader. E’ applicabile quando i team non sono eccessivamente numerosi perché l’attenzione si traduce in parlare con le persone e non solo di tematiche lavorative, ma anche di soft skills. Capire oltre la superficie le persone vuol dire assegnare, in una fase operativa, i task in base ai desideri di queste persone. Capire chi preferisce lavorare in remoto e chi in ufficio. 

Lavoro in presenza o lavoro da remoto?

Molti ancora oggi ricorderanno l’episodio del 2013 in cui la CEO di Yahoo Marissa Mayer richiamò tutti i lavoratori a cui era stato concesso il lavoro da remoto. 

I sostenitori del lavoro in presenza dicono che è più facile mettersi in una stanza e parlarsi insieme (vedi gli standup meeting Agili) oppure le tecniche di programmazione che prevedono di utilizzare due programmatori che lavorano su uno stesso pc.

L’avvento del Covid ha un po’ scoperto le carte e ci ha fatto forzatamente essere antifragili. Abbiamo scoperto moltissimi tool virtuali di comunicazione e di condivisione di successo. 

Quindi è possibile lavorare e bene da remoto? Senza generalizzare a tutti i ruoli e a tutti i lavori, direi di sì. Anche nell’articolo “The power of hidden teams” [1] viene riportato uno studio effettuato su 19 paesi (1000 persone per ogni paese) sul tema del coinvolgimento sul lavoro: il 23% delle persone intervistate lavorano da casa e sono più coinvolte di quelle che lavorano in ufficio. Più della metà di questi lavoratori da remoto non si sentono isolati, ma parte di un team. Al contrario, solo il 17% dei lavoratori “in presenza” (in ufficio) si sentono coinvolti nel team e nel progetto.

Da questo studio emerge quanto abbiamo scritto nei paragrafi precedenti. Utilizzando, quindi, i tool virtuali che la tecnologia ci mette a disposizione possiamo lavorare da casa e l’azienda stessa ne può trarre beneficio (si vedano gli studi e le proposte di https://www.familyworking.it).

Il problema, quindi, non è il “dove” ma il “come”.
Il leader può gestire e motivare le persone anche da remoto, l’intelligenza emotiva non richiede la co-locazione. Sono le abitudini mentali “euristiche” e inconspevoli, quelle che Kahneman definisce i pensieri veloci [8], che ci portano ad attuare modelli spesso automatici e non conformi alla mutevole realtà.

Team Leader Estroversi e Introversi

Il leader diventa quindi un motivatore, un coach, una persona che mette al centro le persone e le loro dinamiche. Ascolta e fa sentire accolte le esigenze di ognuno, sa di poter comunicare con linguaggi non verbali e, anzi, li utilizza con attenzione.

Uno  degli aspetti che il leader deve considerare è descritto nell’articolo “Introverts, Extroverts, and the Complexities” [2].

I team, e quindi i leader vengono suddivisi in introversi ed estroversi attraverso appositi questionari finalizzati a capire quali sono le loro caratteristiche di base.

Team leaders estroversi hanno presa su team che necessitano di una guida forte che porti la vision. Trattasi, infatti di leader assertivi che indicano la direzione in modo chiaro e lavorano meglio con team introversi.

Se però un leader estroverso si trova a gestire un team proattivo, energico e che prende iniziative (team estroverso), allora il suo lavoro non è altrettanto efficace.

In questi casi sono i team leader introversi ad avere la meglio, poiché, con le loro caratteristiche, attivano l’ascolto e l’empatia, entrambe caratteristiche più “sviluppate” rispetto ai leader estroversi.

Il leader attiva un moto “da” anziché un moto “per”, ovvero riesce a motivare le persone affinché “partano” per un obiettivo che hanno identificato anziché impacchettare un obiettivo da far poi perseguire al team.

Il leader incoraggia le domande e gestisce i fallimenti rielaborandoli al fine di attuare il “miglioramento continuo” del team e del progetto.

Conclusioni

Team di successo, persone nello stato di flusso, intelligenza emotiva sono concetti, come abbiamo visto, strettamente correlati come anche Yost e Tucker [7] evidenziano e sono più importanti delle competenze tecniche.

Abbiamo visto che i team hanno codici comunicativi di gruppo tanto più sviluppati quanto i singoli componenti posseggono alcune soft-skills sviluppate, come l’auto-consapevolezza.

Abbiamo, quindi, esplorato lo “stato di flusso” che mantiene le persone ad alti livelli di consapevolezza perché è in grado di “espandere” lo stato emotivo.
In questo stato le persone sono “felici” e anti-fragili.

Infine, abbiamo visto gli altri key factors che un leader deve sviluppare all’interno di un team.

Da queste analisi emerge chiaramente che per avere un team performante non possiamo puntare solo sull’eccellenza delle skills tecniche.
Il leader, attraverso l’arma segreta dei neuroni specchio, deve mantenere un flusso comunicativo, una human attention ed un livello di trust tali da generare in ciascuna persona lo stato in cui può stare bene e trovarsi bene nel team. Si crea così una sorta di “social brain”, da altri definita “intelligenza collettiva”, che porta le persone a sentirsi parte di un team e non di un gruppo.

Riferimenti Bibliografici

[1]  Marcus Buckingham, Ashley Goodall. The Power of Hidden Teams, 2019

[2] Francesca Gino. Introverts, Extroverts, and the Complexities of Team Dynamics, 2015  

[3] Johnson, D.W., & Johnson, R.T. Learning together and alone: Cooperative, competitive, 1999

[4] Julio Velasco "La differenza tra gruppo e squadra

 

[5] D. Marquet. Turn the ship around, 2015

 

[6] D. Goleman. Intelligenza Emotiva, BUR, 2011

 

[7] Yost, C.A., & Tucker, M.L. Are effective teams more emotionally intelligent? 2000

 

[8] Daniel Kahneman. Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2017

Stato di Flusso e Team Agili

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Introduzione

Non occorre essere uno Scrum Master per occuparsi di team Agili.

Varie figure nelle aziende gestiscono team, in base alframework o al modello di gestione di persone/progetti che si utilizza.

Una volta chiarito cosa intendiamo per team, la domanda successiva è: come possiamo gestirlo al meglio?

Ma cosa vuol dire "meglio"? Vuol dire più performante per l'azienda oppure la risposta può essere centrata sulle persone che compongono il team?

Lo Stato di Flusso

Goleman definisce lo stato di flusso come uno stato in cui le persone, al di là del contesto in cui operano, sono felici, antifragili, e concentrate al massimo su ciò che stanno facendo. Certo è uno stato che non può essere indotto dalla proprie competenze tecniche o da direttive di responsabili di vario livello. Il leader, ovvero colui che gestisce il team, dovrebbe creare le condizioni che portano le persone ad entrare in questo stato.

Non stiamo parlando di qualche strana tecnica esoterica e neanche di mettere in una stanza il team con uno psicologo. Stiamo solo formalizzando il fatto che lavorare in uno stato di "benessere" ci rende più produttivi e più inclini a gestire ed accettare il cambiamento.

Cosa deve fare il leader

E' la domanda centrale. Quali condizioni deve "settare" il leader? Quali atteggiamenti deve tenere e quali sono i linguaggi da utilizzare?

Perchè un leader influenza, col suo comportamento, quello dei membri del team? 

Dabbiamo mettere insieme alcune competenze per rispondere: alcuni punti del manifesto sull'Agilità, la definizione di antifragilità, le neuroscienze, e magari un pò di pallavolo....

Approdondirò tutti questi temi in un corposo articolo in pubblicazione su questo sito nei prossimi giorni.

Stay tuned!

Team Agili e neuroscienze per gestire il lavoro da remoto

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Introduzione

Una conversazione faccia a faccia è il modo più efficiente e più efficace per comunicare con il team ed all'interno del team.

E’ uno dei punti del manifesto agile che trovate qui: https://agilemanifesto.org/iso/it/principles.html

E’ esperienza di tutti i giorni, in ambito progettuale, che la co-locazione del team facilita molto la comunicazione.

Come fare però in un momento in cui ci viene imposto di lavorare in remoto? 

Non siamo più nel mindset Agile? Ancora oggi con la crescita della disponibilità di banda e numerosi strumenti di video call nonché lavagne virtuali e chat professionali, è ancora necessario essere co-locati?

Cos’è un Team

Vi ricordate di Velasco l’allenatore della nazionale di Volley negli anni 90 dello scorso secolo? Trovate un bellissimo video di un suo intervento alla conferenza TedX in cui molto chiaramente descrive la differenza tra un gruppo ed una squadra. La squadra non ha solo obiettivi comuni ma ha anche ruoli e interazioni ben definite. Il team, nei progetti agili, è sicuramente una squadra in cui ognuno ha ruoli ben definiti e in cui la comunicazione avviene in presenza. Uno dei ruoli più importanti in questi team sono le persone che facilitano la comunicazione e aiutano a superare i problemi: lo Scrum Master ma anche leader aziendali al di fuori del team.

Un giorno però arriva un evento, un Cigno Nero? 

Diciamo un evento molto impattante che ci costringe a cambiare modus operandi e modalità comunicativa nel giro di pochi giorni.

Dobbiamo resistere e essere più forti dell’evento che si è verificato.

Resistiamo?

Qualcuno vorrebbe, o per semplicità pensa, che adottare un comportamento resiliente sia la soluzione migliore, ma essere resiliente vorrebbe dire resistere, ma resistere a cosa?

Se resisto allora continuo ad andare in ufficio malgrado i rischi del momento? Oppure devo resistere e stare a casa ma senza cambiare le mie abitudini e quindi portando nel quotidiano (senza riuscirci) le stesse modalità di lavoro che avevo prima?

Evolviamo

Forse meglio evolvere, come ci consiglia la natura stessa e come Nassir Taleb formalizza nel suo libro sull’Antifragilità. 

A fronte di un evento “traumatico”, in natura, sopravvivono solo gli elementi che riescono a modificarsi ed adattarsi alla nuova situazione. 

I team devono quindi evolvere allo stesso modo incorporando un midset Antifragile nell’Agilità.

Interagire diversamente

Apriamo una piccola parentesi e vediamo cosa dicono le neuroscienze su questo argomento.

Nel progetto Aristotele, sviluppato da Google nel 2013, si vide, dopo aver osservato molti team, che le dinamiche interpersonali erano più importanti delle competenze individuali.

Del resto anche le neuroscienze ormai fanno emergere che la percezione è più vera della realtà. In risposta al nostro percepito l’organismo produce sostanze chimiche che ci aiutano nelle reazioni. I neuroni specchio di diverse persone si connettono come fossero un sistema generando connessioni emotive nuove delle dinamiche interpersonali . In questo senso la realtà che viviamo è meno vera. Dobbiamo, secondo le neuroscienze, credere nelle nostre percezioni che sono il vero strumento di comunicazione remota che la natura ci ha messo a disposizione.

In questo contesto il leader (da alcuni identificato come manager) che ricopre ruoli aziendali al di fuori del team, deve costantemente aiutare il team, esserne il coach. In una modalità di comunicazione remota in cui si usano telecamere e microfoni, gli stessi componenti del team sentendosi intimiditi dalla distanza o dalla scarsa conoscenza reciproca rinunciano ad approfondire o chiedere spiegazioni, preferendo proseguire il lavoro sulla base di ciò che credono di aver compreso. Si finisce quindi per adottare un modello “distante” di comunicazione.

E’ importante quindi che i leader  comprendano la necessità di raddoppiare gli sforzi nella gestione dei team virtuali e che ogni sforzo debba essere declinato nella duplice prospettiva: maggiore strutturazione del lavoro e maggiore comunicazione e socializzazione. 

In casi estremi è anche possibile organizzare incontri remoti faccia a faccia per sbloccare le dinamiche oppure ricorrere alla gamification per creare, anche da remoto, un certo feeling tra i componenti del team.

Altro punto di attenzione è l’orario lavorativo. Lavorare in remoto può voler dire fusi orari differenti o anche, soprattutto in questo periodo, avere orari lavorativi da far coincidere con una convivenza domestica (figli a casa). Un altro aspetto fondamentale è l’allineamento costante delle user stories, dei task, del product backlog e di tutto il materiale di progetto. Questo stesso materiale va costantemente messo a disposizione del team su board virtuali che utilizzino poi il meccanismo di notifica per avvisare dei cambiamenti. Vale infatti il principio del Manifesto che recita: “Accogliamo i cambiamenti nei requisiti, anche a stadi avanzati dello sviluppo. I processi agili sfruttano il cambiamento a favore del vantaggio competitivo del cliente.”. Ma naturalmente il cambiamento nei requisiti deve essere prontamente percepito da tutti.

Gli aspetti della comunicazione

E’ quindi importante che nella comunicazione, che avviene attraverso “nuovi” strumenti digitali siano presenti i seguenti aspetti.

Anzitutto la responsabilizzazione: comunicare responsabilità chiare, lasciando autonomia su progetti ai componenti del team.

Il coinvolgimento: generare entusiasmo promuovendo ambienti che celebrano la diversità e il lavoro di squadra. Ci sono molti strumenti visivamente “piacevoli” e con elevata interazione.

Il riconoscimento: riconoscere e premiare i collaboratori per prestazioni e contributi speciali, assicurando massima trasparenza, coinvolgimento e anche visibilità social.

La formazione: identificare un sistema di sviluppo e formazione continua per valutare e far crescere i collaboratori in base a ciò che fanno meglio. Questo concetto appartiene anche al manifesto Agile.

Infine valutare periodicamente ed insieme con il team l’efficacia delle modalità e degli stili di comunicazione adottati.

Conclusione

Grazie alle neuroscienze, agli strumenti virtuali, all’evento legato alla attuale pandemia, siamo costretti ad evolvere. Adattare nuovi stili di comunicazione e nuovi strumenti implica modificare il nostro mindset accogliendo e non resistendo. Rimangono però dei punti fermi: responsabilità, coinvolgimento, formazione e riconoscimento devono sempre, e forse più di prima essere presenti nella gestione del gruppo. Il leader o manager è chiamato a fare un ulteriore sforzo per coordinare e mantenere viva la comunicazione mettendo a disposizione le proprie capacità di coach nell’accoglienza delle difficoltà dei singoli. Il leader è quindi un allenatore per la squadra che “avvicina” i componenti del team, ma senza ritornare a concetti di co-locazione che, speriamo, siano definitivamente superati e non ritenuti più necessari.

Progettazione Agile in tempi di cambiamento…(Parte 3/3)

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Terza e ultima parte del nostro percorso nel mondo della pianificazione Agile con l'aiuto di Mike Cohn e del suo bellissimo libro Agile Estimating and Planning.

Introduzione

Nella seconda parte di questa serie di articoli abbiamo visto perchè la pianificazione nei progetti spesso fallisce.

In quest'ultima parte vedremo come pianificare accettando di convivere, anzi, incoraggiando i cambiamenti che avvengono nel corso del progetto.
Cambiare un piano non significa necessariamente cambiare le date. Forse servirà ma invece magari
scopriamo che alcune funzionalità che dovevamo realizzare non servono più oppure
potremmo introdurre più persone nel team. 

Questo è un primo pensiero di base. Ma ci sono altre tecniche che possiamo utilizzare per modificare la nostra iniziale stima.


Replanning

Un piano di progetto per essere utile deve essere accurato, ma dobbiamo accettare che
piani fatti nelle prime fasi del progetto portino in sé incertezza.
Se vogliamo poter accogliere nuovo requisiti e avere il massimo feedback possibile dal
committente ad ogni iterazione allora è necessario che il nostro piano sia flessibile, che
tutti i partecipanti accettino questa flessibilità e che soprattutto il nostro budget si adegui di
conseguenza sebbene seguendo determinati parametri.
Allo stesso tempo è possibile che i task non corrispondano esattamente alla stima che avevamo
ipotizzato.
Diciamo, per fare un esempio, che il nostro progetto è stimato in story points ed è composto da tre task.

Nel corso della prima iterazione pianifichiamo di realizzare i primi due task ma al termine ci
accorgiamo di non esserci riusciti.
Il task 1 infatti ha occupato tutta l’iterazione.
Che fare?
Convochiamo il team e nel retrospective meeting decidiamo la strategia da seguire.
Per gestire la situazione dobbiamo necessariamente fare replanning ma di cosa? Di quali
storie?
Un modo è identificare le relazioni tra le storie. Se ad esempio la storia 1, quella che era stata sotto-
stimata, ha relazione con la 2 e la 3 , allora meglio rifare la stima di entrambe.
In questo modo possiamo procedere nella prossima iterazione con dati aggiornati e basati
sull’esperienza.
E’ chiaro che ciò che stiamo facendo è spostare la data di fine del progetto,
ma nel contempo stiamo lavorando su dati reali, su stime sempre più accurate e stiamo
anche accogliendo i feedback del committente perché, come ogni progetto Agile che si
rispetti, ad ogni iterazione accogliamo tutte le osservazioni.

 

Buffering

Anche questa è una tecnica usata ovvero tenersi del tempo di buffer nella stima delle attività.
E’ una tecnica usata anche in progetti con una gestione più lineare come il waterfall. Fatto
100 il mio impegno per realizzare una attività, la stimo 120 al fine di tenermi un buffer per
gestire le incertezze.
C’è però una grossa differenza. In waterfall arrivo troppo tardi ad accorgermi di
cambiamenti necessari e richiesti dall’utente. Gestirli potrebbe ritardare ulteriormente e
nessun buffer ci può salvare.

Così come le stime possono essere sbagliate o poco precise, anche il cliente cambia idea,
e non è poco frequente.
Non sempre il cliente chiede cambiamenti che implicano un allungamento dei tempi, a volte rinuncia a
features rendendosi conto che non servono o che era poco attuabili.
Lo può fare se nel corso del progetto ha dei propotipi con cui “giocare”.
Da qui, togliendo feature, emerge la possibilità di recuperare del tempo o di inserire altre
funzionalità, ecco quindi che cambiare non vuol dire necessariamente...peggiorare.

Riassumendo quindi pianificare tutto e con troppo anticipo non ci consente di accogliere l'incertezza che è sempre presente in ogni progetto. Come è già stato delineato in "Un Cono al gusto di incertezza" e in "Se vuoi una garanzia comprati un tostapane" la certezza è una chimera che non fa parte della progettazione. Forzare i progetti entro schemi rigidi vuol dire non renderli antifragili e quindi potenzialmente fragili, delicati come dei bicchieri di cristallo.

Apriamo quindi la mente progettuale ad accettarli al fine di evolvere assieme al progetto accogliendo ogni richiesta di modifica in termini, appunto, evolutivi.

Progettazione Agile in tempi di cambiamento…(Parte 2/3)

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Dopo aver visto, nella prima parte di questa serie di tre articoli, la necessità di pianificare vedremo in questo secondo episodio perchè la pianificazione fallisce.

Introduzione

Quando si mollano gli ormeggi uno non va a Capraia ma parte per Capraia.
"Andare a"  o "Partire per" sono due concetti che sembrano simili ma profondamente
diversi... (cit Marco Viganò: insegnante di vela, skipper, navigatore, imprenditore)

Partiamo da qui per riassumere i principali motivi, secondo Mike Cohn, per i quali la
pianificazione nei progetti fallisce:

  •  perché ragioniamo per attività
  •  perché i ritardi si accumulano e le attività non sono indipendenti
  •  il multitasking è dannoso
  •  ignoriamo l’incertezza
  •  le stime diventano “impegni

Ragionare per Attività

Nell’approccio tradizionale alla gestione dei progetti l’organizzazione e la suddivisione del
lavoro è fatto per attività anziché per feature, facciamo un esempio. In ambito IT una
attività può essere lo sviluppo di tutto il supporto per memorizzare i dati del back end, ad esempio
implementazione del database in cui memorizzare i dati. Al termine di questa attività non
potremo comunque dimostrare nulla all’utente perché la parte applicativa: le interfacce, le
pagine del sito, non sono ancora pronte. Quando verranno completate andremo dal nostro
committente per fare una prima demo e quasi sicuramente verremo “rimbalzati” con
alcune segnalazioni. Accogliere questi feedback può voler dire non solo modificare le
pagine del sito, ma anche scendere a livello di db e modificarne la struttura con tempi e
costi notevoli.
Se invece avessimo sviluppato la feature per memorizzare i dati di login e password,
avremmo contenuto i tempi per arrivare al primo rilascio senza sviluppare strutture non
necessarie e passibili di modifiche.

I ritardi si accumulano

Legge di Parkinson:
Il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo disponibile; più è il tempo e più il lavoro
sembra importante e impegnativo
Questo è vero in media, poi certamente ci sono eccezioni.
Prendersi tutto lo slot di tempo disponibile per quell’attività vuol dire che se sono in ritardo
non ho un buffer per espandermi ma finirò a passare il ritardo all’attività successiva. Inoltre
ragionando come detto per attività, vediamo spesso che queste non sono indipendenti fra
loro. Lavorare per feature limita questa dipendenza e isola i ritardi.

Il multitasking

Un falso mito. Per anni abbiamo pensato che svolgere attività in parallelo fosse
vantaggioso. In realtà è stato dimostrato come occuparsi di due task in parallelo aumenta i
tempi. Bisogna infatti considerare il tempo di switch per passare da un contesto di un task
all’altro. In alcuni ambiti e situazioni non sono immediati. Se devo riprendere un lavoro
complesso che ho abbandonato qualche giorno fa, può essere necessaria qualche ora
prima di ridiventare operativo.

Inoltre lo stesso "penny game" dimostra con un semplice gioco questa teoria. Lo potete vedere in un video su YouTube qui oppure descritto in tutti i suoi dettagli su Mokabyte.
In sostanza il multitasking costa energie mentali e psicofisiche, non produce benessere
per la persona, anzi, aumenta lo stress.

Ignorare l’incertezza

Pensiamo che una volta scritte le specifiche funzionali, fatta la stima , ottenuto e approvato
il budget, il progetto partirà e sarà stabile fino alla fine. Ma inevitabilmente le idee
cambiano, il committente ci darà nuove specifiche, incontreremo problemi tecnici e
gestionali (una persona si licenzia e va sostituita). In sostanza la differenza, come scritto
nella citazione iniziale di Marco Viganò tra partire per e andare a.
L’incertezza va prevista, accolta e ne va fatto un elemento che ci rinforza.

Le stime

Se io stimo un lavoro 5 giorni lavorativi ecco come verrà percepito.
Da me: ho detto 5 giorni quindi diciamo che in base al resto delle attività che ho da fare,
tra due settimane potrò rilasciarlo.
Dal cliente (lo stesso che mi aveva già assegnato altri task che non considera possano
occuparmi tempo…): mi ha detto 5 giorni, siamo a lunedì, quindi per venerdì ho tutto.
Una stima porta in sé un concetto di “probabilità” e quindi di incertezza. Non può essere
considerata come un commitment.

Quindi come possiamo pianificare e raggiungere delle stime in modalità Agile? Lo vedremo nell'ultima parte di questa serie di articoli.