Design thinking e vocazione lavorativa

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Si sente sempre più spesso parlare di design thinking.

L’etimologia della parola deriva dal verbo inglese “to design”, inteso come l’intero processo creativo di progettare. Ma è anche il pensare ad un progetto con l’ottica del designer. Se ci guardiamo intorno, tutti gli oggetti che vediamo sono stati progettati da qualcuno. E ogni designer è partito da un problema. Il modo di risolvere i problemi dei designer è diverso da quello degli ingegneri. L’ingegnere fa un’ipotesi e la verifica. Il designer, invece, parte dal problema e cerca la soluzione più confacente creando diversi prototipi da testare sul mercato. Quest’estate ho letto un interessantissimo libro scritto da due americani Bill Burnett & Dave Evans, due veterani della Silicon Valley che insegnano alla Stanford University un percorso formativo, che si chiama, appunto Designing your life. Secondo i due studiosi , possiamo progettare anche la nostra vita lavorativa partendo da questo metodo. Se pensiamo come designer, scopriremo che progettare la nostra vita è costruire qualcosa che non c’è mai stato prima e che potrebbe declinarsi in un’accezione nemmeno immaginabile.

Chi di voi non si è mai posto le seguenti domande?

· Come posso trovare il lavoro che amo?

· Come posso costruire la carriera che mi consenta di vivere bene?

· Come posso bilanciare carriera e vita personale?

· Come posso fare qualcosa di veramente diverso?

Disegnare un nuovo scenario lavorativo è un percorso che parte dalla comprensione profonda di ciò che ci piace fare unito alla consapevolezza di ciò che sappiamo fare. Non solo. Per disegnare un lavoro su misura per noi dobbiamo apprendere un nuovo modello di pensiero. Per prima cosa occorre adottare alcuni semplici atteggiamenti mentali.

1. Attiva la tua naturale curiosità. Ogni giorno la vita ci mette di fronte a nuove opportunità. Se manteniamo uno sguardo aperto e uno stato d’animo fiducioso, potremo metterci nella condizione di coglierle.

2. Prova cosa nuove. Provare a modificare i nostri ”automatismi” ci aiuta ad attivare nuove parti del cervello.

3. Ridisegna il tuo pensiero. Al giusto problema corrisponde una giusta soluzione.

4. Resta sempre connesso al processo: Non focalizzarti solo sull’obiettivo, conoscere è un processo.

5. Chiedi aiuto: costruisci un processo collaborativo e fai rete con le persone a te vicine.

Nasceranno preziose sinergie.

Il processo di design thinking applicato alla vocazione lavorativa prevede tre step.

Definire il Problema

Per prima cosa devo chiedermi qual è la mia visione lavorativa, cosa rappresenta per me il lavoro e che peso sociale ha. E poi passare all'analisi della mia visione della vita (in cosa credo? Cosa sto facendo? Cosa è giusto o sbagliato per me?) . Posso poi cercare le intersezioni tra le due visioni o gli eventuali punti di conflitto.

Generare Soluzioni

Poiché non possiamo sapere ciò che vogliamo se non analizziamo ciò che potremmo volere, occorre generare il maggior numero di soluzioni possibile con la tecnica del brain-storming.

Più le idee sono pazze, meglio è. Non è detto che la strada da percorrere sia una sola. Dobbiamo ampliare la nostra visuale.

Il lavoro più difficile è quello di sintesi.Una volta raccolte tutte le idee occorre scegliere quelle migliori, per poterle trasformare in azioni concrete per costruire il nostro nuovo scenario lavorativo. Ma da dove vengono le buone scelte e come le riconosciamo?

La parte basale del cervello, la più antica, ci porta a fare le scelte migliori. Gli studi sull’intelligenza emotiva, codificati da Daniel Goleman ci hanno portato a riconoscere la “saggezza delle emozioni”. Le forme di conoscenza intuitive sono solitamente silenziose ed emergono quando non le cerchiamo, ma lasciamo loro lo spazio per emergere.

Validare il Progetto

Come ultimo passo, una volta concepito un progetto concreto lo dobbiamo verificare sul campo, per esempio chiedendoci onestamente se lo vogliamo davvero e se non siamo spinti da credenze distorte o proiezioni (magari derivanti da condizionamenti familiari o sociali).

Possiamo, ad esempio isolare solo un aspetto del nostro progetto e immaginarne in tutti i dettagli un suo possibile sviluppo futuro. Immaginare il futuro è viverlo. Mettere energia in questa operazione di costruzione mentale la vivifica e la rende anche praticamente possibile.

Il processo creativo si nutre, in questo modo, di quell’insieme di azioni e fatti concreti connessi alle idee che li hanno generati, che a loro volta possono generare altre idee.

Non lasciarsi scoraggiare lungo il cammino è il lavoro più difficile: aggiustare il tiro e continuare a progettare... fino a che il nostro progetto ci somiglia veramente!

Trovate questo articolo anche sul mio blog, Allena i Pensieri.

 

Leadership e spiritualità

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Recentemente, un filone americano di studi ha lanciato l’idea di valorizzare il "capitale spirituale" come variabile fondamentale per la produttività delle organizzazioni aziendali e nei luoghi di lavoro.

Di spiritualità se ne parla poco e spesso male, confondendo la spiritualità con la religione. In verità, quando intratteniamo un dialogo costante e fecondo con la nostra anima e ci prendiamo cura dei suoi bisogni la nostra vita prende una direzione diversa. Del resto Gardner, con la teoria delle intelligenze multiple, e Goleman, con il paradigma dell’intelligenza emozionale, hanno già aperto la strada a visioni diverse del nostro modo di farci strada nella vita. L’intelligenza spirituale è la capacità di ascolto dell’anima, quella marcia in più che trasforma la motivazione in passione, la volontà in vocazione, la fiducia in fede e la capacità in responsabilità. Perché, dunque, non utilizzarla come driver nei modelli di leadership?

S. Covey, ne L’ottava regola mette a confronto la leadership come posizione (autorità formale) e la leadership come scelta (autorità morale).

La dicitura "autorità morale" è - di fatto - un ossimoro che racchiude tutta la potenza delle dicotomie generative: autorità morale significa ottenere influenza seguendo principi etici. Autorità morale significa uno stato di presenza, guidato dallo "spirito di servizio" al di sopra di sé stessi.

Quando leader con autorità formale o potere, dato dalla loro posizione, si rifiutano di usarlo se non come ultima risorsa, aumentano la loro autorità morale. Infatti, mettono da parte l’ego e, al suo posto, utilizzano qualità come persuasione, gentilezza, empatia e, in breve lealtà.

Otto Scharmer con la sua U-Theory (una delle metodologia più innovative nel panorama del change management) ci insegna a co-progettare soluzioni efficaci per le organizzazioni, in un panorama complesso, come il mercato del lavoro, caratterizzato da volatilità, incertezza e ambiguità.

Secondo Scharmer la differenza la fa il punto di consapevolezza da cui hanno origine le nostre azioni. E leadership diventa allora la "capacità di spostare il luogo interno da cui operiamo".

Il modo in cui si presta attenzione dà forma al dispiegarsi della realtà sociale attorno a noi, perché l’energia segue l’attenzione.

Ovunque poniamo attenzione come leader, innovatori, genitori, agenti del cambiamento, lì si indirizzerà l'energia del sistema che ci circonda, inclusa la nostra stessa energia.

La chiave della grande leadership risiede, quindi, nella capacità di restare concentrati.

Purtroppo, però, nostra abitudine a pensare per pensare – osserva Kabat Zinn, il fondatore della Mindfulness - ha, tra le varie conseguenze, quella di espellere dalla mente (che qui intendiamo come il nostro campo di coscienza) alcune qualità, in primis, la consapevolezza. Noi tutti tendiamo a sfuggire la consapevolezza per rimanere attaccati ad una visione fasulla del mondo, incentrata su un punto di vista egoico.

La visione del leader oggi, invece, non può più essere quella del capo che si mette davanti al gruppo e lo guida verso gli obiettivi, ma deve necessariamente uscire dalla logica di pensiero ego-centrata, per entrare in uno stato di consapevolezza eco-sistemica e portarsi al passo con la realtà del nostro mondo globalmente interconnesso. Diventa allora fondamentale dotarsi di strumenti di crescita personale che consentano al leader di attivare un nuovo paradigma di pensiero con cui lavorare prima su di sé e poi nel gruppo (di cui lui stesso fa parte). Il nuovo mind-set di competenze implica una qualità di ascolto e di presenza che consentano al leader di percepire le sfide del futuro, di ispirare il gruppo, di creare nuove possibilità di sviluppo.

La leva economica, infatti, non è più sufficiente a spiegare il benessere soggettivo e la felicità è veramente tale solo nella reciprocità. Non è un caso che nel 2006 l’Oms abbia aggiunto alle condizioni del benessere anche quello spirituale, di cui già ci parlava Maslow come ultimo gradino in cima alla piramide dei bisogni.

Ogni uomo deve decidere se camminerà nella luce dell'altruismo creativo o nel buio dell'egoismo distruttivo Martin Luther King

Nel mondo di oggi, in rapida e drammatica evoluzione, l'affermazione di sé dipende sempre più da come interagiamo con gli altri. Lo dimostra Adam Grant, giovane e brillante docente alla Wharton School, che nel libro Più dai più hai traccia tre profili che corrispondono ad altrettanti stili di azione: il giver (colui che antepone il dare al ricevere), il matcher (colui che, nel rapporto dare-avere punta al pareggio), il taker (colui che prende e basta):

I givers di successo sono quelli che hanno a cuore sia gli interessi degli altri che i propri,

diventando strategici nel modo in cui donano. Sono generosi con altri givers o matchers, in modo da massimizzare i risultati. Donare è un comportamento virale, ed i givers, mandando energia positiva nel loro network, attraggono nel tempo persone simili a loro, creando quindi una rete ricca di opportunità condivise con tanti.

Quali sono, allora le qualità che può coltivare un leader che vuole portare spiritualità e benessere all'interno della sua organizzazione?

Inanzitutto la gentilezza.

Oggi il termine “gentilezza” abbraccia una gamma di sentimenti descritti con parole diverse: solidarietà, generosità, altruismo, benevolenza, umanità, compassione, pietà, empatia. In passato questi sentimenti erano conosciuti con altri nomi: philantropia (amore per l’umanità) e caritas (amore per il prossimo). I significati cambiano, ma tutti questi termini rimandano all'idea di “cuore aperto”, cioè essere bendisposti verso gli altri.

In secondo luogo l’ascolto. Secondo Scharmer ci sono 4 livelli di ascolto 1. Ascolto di downloading (ascoltare quel che ci si aspetta di sentire) 2. Ascolto fattivo (prestare attenzione a ciò che ci sorprende) 3. Ascolto empatico (entrare nel punto di vista dell’altro) e 4. Ascolto generativo (connettersi con il futuro, lasciando andare il passato).

L’arte della leadership consiste, allora, nel facilitare il passaggio da un tipo di ascolto ad un altro.

Ed infine la fiducia, intesa come sentimento di base dell’anima, sulla quale si può fondare una vita attiva, dedita al bene e alla giustizia. L’anima è il tutto, è libera, inclusiva e già perfetta così com'è, senza bisogni e senza desideri.

Nella visione egoica si generano energie conflittuali, perché predominano barriere e inquinanti. La visione del mondo animica, invece, crea una campo di energie positive e di relazioni armoniche che possono facilmente divenire contagiosi e contribuire fattivamente a generare benesssere e crescita feconda in qualunque organizzazione.

Meditate, gente, meditate...

Trovate questo articolo anche sul mio blog, Allena i Pensieri.