Leadership e comunicazione degli obiettivi

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Definire chiaramente gli obiettivi, ma con quale limnguaggio?

Il leader quali aspetti deve curare?

 E’ meglio evidenziare ciò che il team dovrebbe raggiungere o ciò che dovrebbe evitare? 

Per rispondere a queste domande ho fatto un parallelismo con una sessione di coaching in cui gli obiettivi vanno sempre espressi in positivo. Vediamo perchè e come utilizzare questa tecnica nella gestione della leadership.

 

La definizione dell’obiettivo di una sessione di coaching riveste un'importanza fondamentale al fine del successo della sessione stessa, identifica il punto di arrivo. Assieme al risultato atteso permette ad entrambi gli attori della sessione (coach e coachee) di costruire un percorso di esplorazione, di consapevolezza, di strategia e di azioni. Naturalmente tale obiettivo deve essere carico di motivazioni per il coachee, altrimenti il percorso non avrebbe la giusta energia per essere costruito ed attraversato.

Sappiamo, per chi ha una formazione da coach, che, tra le altre cose, l’obiettivo va espresso in positivo. Perchè? Qual è l’effetto del formularlo in positivo?

C’è differenza tra negativo e positivo?

Esprimere l’obiettivo in positivo permette al coach di facilitare il coachee nella definizione del suo percorso di consapevolezza. L’obiettivo, espresso in maniera chiara e diretta delinea il traguardo che il coachee vuole raggiungere utilizzando risorse che sono già presenti in lui/lei. E’ un viaggio che si intraprende con ruoli distinti costruendo un ponte tra dove il coachee è ora e dove vorrà essere al termine della sessione. 

 

L’obiettivo deve avere quindi una bella energia, intensa e riconoscibile.

 

Partire esprimendo, all’interno dell’obiettivo, un concetto negativo, abbassa l’energia. Proviamo inoltre a pensare cosa succede quando qualcuno ci chiede di non pensare a qualcosa. Dopo pochi secondi noi la pensiamo, magari anche solo per non pensarla…

A parte il gioco di parole, se dicessi: “ora non pensare a quanto eri arrabbiato stamattina” quale effetto sortirei? Sicuramente, anche solo per pochi secondi, la vostra mente vi riporterà a quella sensazione di rabbia, alle sue cause, se note, ma in ogni caso i processi mentali porterebbero parte delle mie energie verso una direzione da cui invece voglio prendere le distanze.

Concentriamoci quindi su ciò che vogliamo piuttosto che su ciò che non vogliamo. Proviamo però a scendere ad un livello più profondo per capire davvero cosa stiamo facendo trasformando in positivo la definizione dell’obiettivo di sessione.

La nostra mente tende a riproporre sempre gli stessi schemi. Ce lo spiega bene Gallwey in uno dei suoi libri, “Il gioco interiore del tennis”. Ma non è il solo, anche John Kotter in un simpatico cartone animato intitolato “Who moved my cheese”, reperibile su youtube, ci mostra come è più semplice aspettare che le cose cambino.

Ma chi le deve far cambiare? Qualche entità esterna? Una magia forse?

Alice: Quale via dovrei prendere? 

Gatto: Dipende dove vuoi andare. 

Alice: Ma io non so dove andare. 

Gatto: Allora non importa quale via prendere!” 

(tratto da Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll)

Se il coachee ha chiesto una sessione è perchè vuole lavorare su qualcosa che non gli sta più bene. Qualche volta ha già le idee chiare, altre, come nel caso di Alice, deve chiarirsele. In questo processo abbiamo un nemico, che Gallwey chiamerebbe il Sé1. Una parte razionale e controllora della nostra mente che vuole fare poca fatica, vuole ripercorrere gli stessi sentieri perchè cambiare implica imparare, andare verso l’ignoto, costruire nuovi schemi mentali e nuove sinapsi. Questa parte vuole comandare, scegliere il percorso da fare, che però sarà sempre lo stesso di sempre.

Lo stesso modo con cui scegliamo un nuovo lavoro, un nuovo partner, una nuova casa o la pizza quando andiamo al ristorante.

Se voglio mettere in atto nuove strategie Galwey e Kotter (ma anche altri) ci dicono che è più semplice ed immediato descrivere la mia voglia di cambiamento parlando di una insoddisfazione: parlo quindi dell’ostacolo, lo rappresento nella mia mente e lo espongo al mio coach.

Implicitamente sto dando a questa immagine mentale energia. E’ come se la facessi continuamente resuscitare anche se, in qualche modo, rappresenta qualcosa che vuole cambiare, evolvere, altrimenti non farei una sessione di “cambiamento”.

Quindi io voglio costruire una nuova strada o, in termini più tecnici un ponte tra questa immagine e il futuro.

Se il futuro lo immagino identico al presente allora inutile percorrere la strada, siamo già arrivati!

Meglio sforzarsi a immaginare un obiettivo che parli del nuovo: ciò che vorrei “al posto di”, come vorrei essere. Insomma cara Alice dove vuoi andare?

Nel momento stesso in cui, con l’aiuto del coach, riuscirò a mettere a fuoco la mia nuova meta, il fatto stesso di descriverla a parole attiva il cambiamento. Credo che ripetere insieme al coachee l’obiettivo, espresso in positivo, sia come un rituale, un mantra. 

L’atto di parlare del resto è vibrazione, lo dicono anche altre discipline, parlare di cose negative abbassa l’energia e quindi la vibrazione. 

Iniziamo quindi la sessione aumentando l’energia, alzando il livello di vibrazione, da qui in poi, verso il futuro.

Conclusione

Coach e coachee sono qui sostituibili con leader e team. Il leader formulando gli obiettivi in positivo inizia un processo di comunicazione che ha vibrazioni, e quindi energie, in crescendo stimolando simili vibrazioni in chi lo ascolta.

La comunicazione è parola e questa è vibrazione e chi ascolta può entrare in risonanza




Il Coach è Agile?

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L’Agilità è un “mindset” definito ampiamente nel suo manifesto e soprattutto dalla pratica di oltre vent’anni di attività.

Il coaching è …?

Io lo definisco come un “viaggio” in cui il coach, attraverso domande, permette al coachee (il cliente) di costruire la propria strada verso il suo obiettivo. Una strada realizzata utilizzando risorse già presenti nel coachee. Se poi avete voglia di approfondire potete leggere il mio articolo "Cos'è il coaching".

Ma da “agilista” convinto ed ora da coach professionista ho subito notato un forte parallelismo tra i principi dell’agilità espresse nel manifesto Agile e le competenze del coach.

Iniziamo quindi questo viaggio con l'obiettivo di mettere a confronto questi due mondi apparentemente distanti.

La priorità dell’agilista è soddisfare il cliente attraverso rilasci frequenti (si parla qui tanto di software quanto di altri ambiti). Il coach ha come timeframe la sessione al termine della quale, per definirla di successo, l’obiettivo deve essere raggiunto e le azioni per arrivarci devono essere identificate. Un rilascio insomma. Solo così il cliente è soddisfatto.

Il secondo principio parla di antifragilità: i cambiamenti sono i benvenuti. Un coach è antifragile? Ovviamente lo è. Un coach si “svuota” prima e durante la sessione per seguire, in uno stato di flusso, il coachee. Ma il coachee cambia spesso direzione, rotta, per costruire la sua strada deve guardare in varie direzioni. Il coach non può quindi avere un percorso predeterminato in mente ma deve adeguarsi e adattare le proprie domande in base a quanto emerge.

Il coach ed il coachee sono immersi in una partnership che coinvolge tanto il fruitore, il coachee o cliente, quanto colui che lo segue, il coach. Entrambi sono coinvolti.

Un altro aspetto fondamentale della relazione di coaching è la comunicazione: diretta. Comunicare senza premesse, senza giri di parole, semplice. Il coach porta le sue domande in base al momento. Non pensa al dopo o al prima, sta nel presente, ascolta i ragionamenti e le emozioni del coachee e in quel momento costruisce la costruisce. Allo stesso modo l’agilità si occupa di ciò che serve massimizzando il lavoro non svolto. E’ un concetto interessante e potente, non mettiamo energie nello sviluppare qualcosa che servirà, forse, dopo perché dopo potrebbe non servire più. Nella progettazione Agile quindi ci si concentra sui task che appartengono al ciclo di sviluppo in corso... La similitudine è evidente.

Il coach tende sempre all’eccellenza rispetto alla sua tecnica. E’ portato, anche dal codice etico della propria didattica di riferimento ad una formazione continua e ad un continuo processo di mentoring finalizzato a migliorare le sue stesse tecniche.

Possiamo quindi dire che la relazione tra Agilità e Coaching è forte ma dove può portarci questa consapevolezza?

Nelle aziende dove si introduce l’Agilità ci sono grandi cambiamenti organizzativi, di relazione e di funzione.

E' sicuramente importante avere esperti Agili che aiutino i team a lavorare al meglio , ma lo sviluppo delle competenze emotive e il supporto al cambiamento sono .

Il coach professionista che conosce i concetti dell’agilità può aiutare le persone a riscoprire le proprie risorse e a metterle al servizio degli obiettivi propri o aziendali rispetto al cambiamento in corso.

Smart Working da Remoto ma Agile

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Remote, Smart, Family Working…

Anzitutto un pò di chiarezza tra termini che parlano di lavoro da remoto ma che portano ad esperienze differenti. Il termine più usato e abusato è sicuramente smart working ma spesso con questo termine ci si riferisce al semplice remote working. Vediamo quindi le caratteristiche principali di queste metodologie.

Remote Working

Il remote working è quello che la maggior parte di noi fa in questo periodo di restrizioni, soprattutto chi lavorava in ufficio. Il luogo di lavoro è diventato la propria abitazione con un orario implicitamente gestito dal lavoratore. Si dovrebbe lavorare per obiettivi ma in realtà si lavora da casa con le stesse modalità utilizzate in ufficio. Questo sicuramente porta a inefficienza perché gli strumenti che si hanno sono diversi da quelli presenti in ufficio. Lavorare da remoto implicherebbe un diverso modo di interagire coi colleghi. Non è efficiente riempirla giornata di meeting, spesso “chiamati” al fine di controllare il lavoro degli altri.

In questo tipo di lavoro di fatto si sposta la location ed è quello che bene o male in molti abbiamo fatto, da un giorno all’altro, durante il primo lockdown.

Tutti i “supporti” per lavorare sono a carico del dipendente, tranne il pc aziendale.

Smart Working

Con il lavoro smart l’azienda passa (o dovrebbe passare) da una gestione della leadership basata sul “control” ad una più tendente al “trust”. Il lavoro è organizzato ad obiettivi, il luogo di lavoro è l’azienda o l’abitazione del collaboratore o altri luoghi. Con lo smart working l’azienda migliora la soddisfazione dei collaboratori interessati e ottiene ottiene un incremento delle performance. La differenza fondamentale è il concetto di trust. Definendo obiettivi si lascia al lavoratore l’organizzazione del proprio tempo che può quindi includere orari di lavoro autodeterminati (ad esclusione dei meeting) e la possibilità di gestire meglio il tempo personale. Si evitano così spostamenti spesso faticosi e di lunga durata che portano ad aumentare il fattore stress personale e ad una maggiore spesa per raggiungere il posto di lavoro.

Agile Working

Con il lavoro agile si implementano i concetti espressi nel manifesto sull’Agilità. Le persone (clienti e collaboratori) sono messe al centro, si lavora per raffinamenti successivi e si utilizzano esperimenti atti a convalidare o meno le ipotesi anziché scrivere a priori corposa documentazione che poi, puntualmente, dovrà essere modificata . E’ un mindset che da solo richiederebbe una serie di articoli e che coniuga, in una visione sistemica, il lavoro delle persone, intese come team, ad una leadership in completa modalità “trust” utilizzando l’intelligenza emotiva (vedi i numerosi libri di Goleman sul tema) come vettore di comunicazione anche non verbale.

Con “trust” intendo un stile di leadership in cui il leader è un facilitatore, quasi un coach. Non controlla le persone passo passo ma le aiuta a seguire l’obiettivo.

Non è una necessaria evoluzione dello smart working ma sicuramente aiuta a migliorare anche la serenità delle persone. Nel mio concetto di vita professionale questo risultato è già ampiamente sufficiente per giustificarne l’introduzione.

Family Working

Questo concetto di lavoro è stato formalizzato da non molto tempo, lo potete trovare anche qui. Possiamo riassumerne i concetti nei seguenti punti:

  • le tecnologie devono essere adeguate e le fornisce l’azienda 
  • l’orario diventa totalmente flessibile e gestito tramite calendario elettronico; chi vuole può modificarlo anche ogni mese
  • i rapporti tra colleghi si gestiscono solo tramite videochiamate dalla propria postazione di casa, in questo modo si garantisce il diritto alla disconnessione 
  • l’azienda dovrà mettere a disposizione strumenti concreti per incentivare il benessere fisico e mentale, dal monitoraggio dello stato di salute e dello stress alle attività di fitness quotidiano con il personal trainer a distanza 
  • ai dipendenti con figli l’azienda offrirà contenuti ed esperti dedicati che possano suggerire e gestire a distanza attività da svolgere con i bambini in questa complicata fase con le scuole chiuse

Nel concetto del family working l’azienda si fa più carico di fornire al collaboratore gli strumenti per lavorare al meglio, lo mette al centro quindi, come ci dice l’Agilità. E’ sicuramente vero che in una azienda dove tutti i lavoratori sono a casa si hanno grandi risparmi in termini logistici e strumentali: sono necessari spazi ridotti, reti meno potenti e le postazioni di lavoro possono essere gestite in sharing.

Parte di questi risparmi possono essere investiti nella salute e benessere del collaboratore aumentandone implicitamente il coinvolgimento e quindi la produttività.

La difficoltà di cambiare

Per chi lavora in una stessa azienda/ruolo d molto tempo, la consequenzialità di azioni, compiti, responsabilità, porta ad avere la sensazione di “sapere sempre dove mettere le mani” e “sapersi muovere in azienda”. Queste sicurezza ci tengono ancorati in una situazione professionale, immobili, tanto comunque là fuori è tutto uguale!

Da qui il disagio di cambiare la modalità in cui lavoriamo da quella in presenza presso l’azienda a remoto o mista.

Del resto amiamo le certezze perchè cambiare è faticoso. Anche in questo mio articolo https://www.agilethinking.it/2019/12/29/le-neuroscienze-e-il-cambiamento

ne parlo. Le neuroscienze ci dicono che la nostra mente tende a ripercorrere schemi conosciuti per fare meno fatica, per avere tutto sotto controllo.

La sicurezza, nello stesso tempo, è anche immobilità di pensiero ed azione. Occupiamo tutta la nostra quotidianità per soddisfare i bisogni professionali e personali senza avere mai un secondo libero e senza riuscire a rispondere ad una domanda fondamentale riassumibile in una parola: perché. Trovare, in altre parole, il senso e la soddisfazione in ciò che professionalmente facciamo dovrebbe essere molto più importante della sicurezza.

Recentemente abbiamo obbligatoriamente “messo dello spazio” nella nostra vita lavorando da casa a causa di alcuni lockdown. Abbiamo imparato, noi e le aziende, che possiamo lavorare anche senza mettere il lavoro al centro, piuttosto mettendo noi stessi. Chi può lavorare da casa forse lavora di più ma sicuramente si gestisce meglio il proprio tempo e le emergenze e non deve attraversare la città di corsa affollando i mezzi o aumentando il traffico per gestire i propri impegni personali.

Quasi magicamente ci accorgiamo di avere momenti liberi in più e più congeniali, possiamo utilizzare la pausa pranzo per fare sport o una passeggiata sotto casa, possiamo spezzare la giornata e allungare i tempi di lavoro in serata. Tutto ciò crea spazio, spazio per pensare non razionalmente, spazio per iniziare a dare risposte sul senso di ciò che facciamo. Quando siamo più sereni siamo più creativi perché siamo più vicini ad uno stato di flusso.

In questo stato le persone reagiscono molto bene all’imprevisto e riescono ad avere prestazioni elevate col minimo sforzo.

Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti, attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene! 

Tutti insomma ci guadagnamo, bisogna solo buttarsi.

Leadership remota

Analogamente anche lo stile di leadership deve adeguarsi al lavoro da remoto. il “trust” come già abbiamo detto deve diventare lo stile predominante, il leader deve comunicare tenendo conto che i tool virtuali possono facilitare o meno persone molto emotive.

I meeting non devono occupare ogni momento, soprattutto in un contesto di Agile Working, in cui l’esperimento è la parte importante. 

Non dobbiamo quindi portare in remoto il modo da lavorare che avevamo in presenza, ma trovare altre modalità.

Concentrarsi sugli obiettivi e non sulle singole attività, evitando il controllo e promuovendo il trust.

Non utilizzare troppi tool ma concentrarsi su quelli utili in base al team/progetto.

Infine, se compatibile con le policy aziendali, assicurarsi che le persone abbiano gli strumenti necessari a lavorare al meglio.

Il leader in questo caso è ulteriormente un facilitatore ed un coach. Deve facilitare la comunicazione e gestire momenti di retrospettiva (anche se non siamo in modalità Agile) in cui focalizzarci su quanto si è sperimentato in un certo periodo e come poterlo migliorare.

Le modalità di comunicazione poi non devono necessariamente essere sincrone.

Conclusioni

Distinguere lo stile di lavoro che stiamo attuando tra remote, smart, agile è il primo passo per capire dove vogliamo essere. Dare un senso a ciò che facciamo avvicinandolo al nostro modo di essere è la direzione auspicabile.

Naturalmente sono le stesse aziende a doversi incamminare verso una metà comune che ha come centro la persona. 

 

Fail-Safe oppure Safe-to-Fail: un confronto

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Introduzione

La domanda è: gestire i problemi che possono bloccare il sistema nel momento in cui si verificano (fail-safe) oppure fare in modo che i problemi “non abbiano effetto” (safe-to-fail)?

Dobbiamo costruire protezioni intorno al nostro sistema o fare in modo che gli “eventi negativi” siano in qualche modo utili per farlo evolvere?

In questo articolo vorrei confrontare il primo approccio (fail-safe) con il secondo (safe-to-fail) evidenziando le caratteristiche di ciascuno.

Il “sistema”

Definire la parola sistema in questo ambito è cosa già ardita quindi semplifichiamo, togliamo, come ci insegna l’Agilità.

Per sistema possiamo pensare ad un prodotto, alla nostra stessa vita, ad un programma software. Un “sistema” nelle sue fasi di realizzazione richiede dei passaggi intermedi atti a validare la strada che stiamo percorrendo. Altre volte il sistema è validato solo al termine del suo processo di realizzazione. 

Quale che sia il nostro mindset per realizzarlo, se il sistema è critico come facciamo a proteggerlo e proteggerci dalle situazioni critiche?

Fail-Safe

Nella subacquea, uno dei miei sport preferiti, per respirare sott’acqua un sub respira attraverso un erogatore collegato ad una bombola piena di aria. Cosa succede se l’erogatore si rompe? Il subacqueo deve precipitarsi in superficie senza aria? Potrebbe essere molto pericoloso soprattutto se siamo ad una profondità elevata. Se fosse così i progettisti di erogatori subacquei non avrebbero costruito un sistema fail-safe. Quello che succede nella realtà è che l’erogatore continua a fornire aria, ma la fornisce continuamente senza interruzione, generando un flusso di bolle che dà modo al subacqueo di risalire con una certa tranquillità in superficie. 

Il sistema è intrinsecamente fail-safe perchè a fronte di un evento critico, la rottura di un suo componente, va meccanicamente in una situazione “safe” per chi lo sta utilizzando.

Pensiamo ora ad un software in grado di gestire un aereo in fase di atterraggio. La prima cosa che mi viene in mente è: “che cosa deve succedere se non funziona?”. Forse anche qui come nel caso dell’erogatore, il sistema dovrebbe essere disattivabile in ogni momento dai piloti umani andando in una situazione safe.

In ambito cinematografico ci sono diversi film che mostrano cosa potrebbe succedere se un sistema con una catena di comando (es protocolli militari) non prevedono la gestione fail-safe, ad esempio: “A prova di errore” un film del 1964  oppure “Il dottor stranamore.

Quindi a volte è possibile costruire sistemi che in caso di failure vanno automaticamente in uno stato safe. Altre no. Per proteggere questi sistemi è necessario mettere in atto controlli, cambiare la modalità di implementazione in modo da ridurre gli errori. In informatica ad esempio il test driven development (tdd) è un approccio che prevede, prima ancora di iniziare a scrivere codice, la realizzazione di tutti i test ai quali il prodotto dovrà rispondere. Questo contribuisce a creare prodotti software di maggior robustezza.

Nelle aziende si utilizzano le teorie legate al risk management che è definito come “l'insieme di attività, metodologie e risorse coordinate per guidare e tenere sotto controllo un’organizzazione con riferimento ai rischi” e inoltre “Il risk management è un processo continuo, graduale e proattivo….”

La misurazione del rischio è necessariamente un calcolo di probabilità che quindi deve continuamente modificarsi in base all’evoluzione dei processi che va a monitorare. Per quanto accurato e come anche Taleb dice, non può mai darci una certezza.

Safe-to-Fail

Sebbene sia sempre stato un fan di Tesla, vorrei aprire questa sezione con un pensiero di Edison, i due si fronteggiarono lungamente nella loro vita.

Edison prima di riuscire a mettere a punto la lampadina al tungsteno fallì molte volte. Per lui però i fallimenti non erano eventi negativi ma semplicemente un modo modo per imparare come non fare qualcosa, in questo caso una lampadina.

L’esperimento per imparare, l’esperimento per arrivare a un prototipo (non al prodotto finale) e poi, nel caso peggiore buttarlo via e ricominciare.

Possiamo quindi fallire, ci è riconosciuta una libertà che ci permette di lavorare più tranquillamente.

Daniel Ek il fondatore di Spotify dice: "We aim to make mistakes faster than anyone else."

Ammettere l’errore anziché condannare chi lo ha commesso vuol dire anzitutto parlarne e stare su un piano di comunicazione positiva. 

Il problema con il fallimento è che pesa di più sul futuro. Anche se riusciamo ad entrare in un mood come quello espresso da Edison, è relativamente facile farlo per il passato mentre per il futuro è più difficile. A fronte di un fallimento ci auguriamo di non sbagliare ancora...

In quest’ottica è importante, almeno in un contesto aziendale, lo stile di leadership.

Leadership Safe-to-Fail

Il Ceo di Microsoft, Satya Nadella, a fronte di un notevole problema di immagine provocato da un errore di programmazione su Tay, il bot utilizzato per interagire con gli utenti Twitter, trasmise ai diretti responsabili il pensiero che dagli errori si può imparare ed è meglio fare scelte errate piuttosto che non farle.

Ogni volta che si parla di mindset e di cambiamenti i leader sono figure centrali. 

A questo proposito è sempre divertente e illuminante vedere su youtube il cortometraggio dei pinguini che cercano un altro iceberg su cui vivere quando capiscono che il loro si sta sciogliendo, è intitolato Our iceberg is melting di Paul Kotter. 

Il gruppo di pinguini leader, dopo alcune verifiche capiscono che non è attuabile la modalità Fail-Safe ovvero l’iceberg non può essere protetto dal calore. Allo stesso modo i futuri iceberg non potranno essere messi sotto una “campana di vetro”, una bolla che li proteggerà per sempre.

Decidono, con diversi passi, di attuare un cambiamento e approcciare il metodo Safe-to-fail. Scelgono un gruppo di giovani e forti pinguini che inizia ad esplorare gli altri iceberg nelle vicinanze. Per diversi giorni le esplorazioni saranno fallimentari!

Ma invece di scoraggiarsi i pinguini ne traggono un insegnamento che alla fine li condurrà alla meta.

Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza i pinguini leader e il loro mindset safe-to-fail. 

Conclusioni

Taleb definisce il "cigno nero" come un evento negativo e assolutamente imprevedibile.. Come tale, anzichè concentrarci sulle conseguenze per arginarle, meglio avere "sistemi" che a fronte di un evento "cigno nero" si possano riconfigurare traendone beneficio per migliorarsi. Proteggiamo quindi il nostro sistema e ci ostiniamo a calcolare la probabilità del “cigno nero”  oppure andiamo verso un approccio sperimentale in cui ci saranno sicuramente fallimenti e modifiche al nostro percorso prima di arrivare al successo?

L’ambito è determinante, la cultura aziendale anche, ma soprattutto l’apertura al cambiamento.

Partendo quindi dal “perché”, "perché devo cambiare approccio?", e verificare attraverso una serie di esperimenti se è possibile utilizzare la modalità safe-to-fail costruendo un sistema che può fallire. Se siamo in un ambito critico e quindi il sistema non può fallire perché, ad esempio, metterebbe a rischio l’incolumità di qualcuno, allora l’approccio safe-to-fail può comunque aiutarci a costruire prototipi sempre più resistenti al “cigno nero”.

Resisto e mi preparo a fronteggiare il nemico oppure lo accolgo e provo a farci "amicizia"?

Agilità, leadership e gioco del tennis

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Introduzione

Imparare un nuovo mindset, come quello Agile, vuol dire cambiare e quindi abbandonare abitudini probabilmente radicate.

Perché farlo?

Se lo facciamo perché questa è la tendenza del momento, la moda, il così fan tutti, il nostro cambiamento probabilmente non durerà molto e avanzerà con passi rigidi e instabili, ma ben controllati. Seguiremo regole ricavate da innumerevoli corsi e manuali per darci una sensazione di controllo. In altre parole studio come applicare il cambiamento.

Se invece lo facciamo guidati da una profonda necessità interiore di cambiamento allora siamo già sulla strada giusta. 

La leadership e l’Agilità sono temi di cui si parla molto.

Come diventare quindi Agili e assumere uno stile di leadership che sia basato sul trust anziché sul control lasciandosi andare?

Facciamo alcune riflessioni aiutati dal percorso che Timothy Gallwey (ex allenatore di tennis, coach e saggista) ci ha descritto nel libro Il gioco interiore del tennis.

Dobbiamo solo disimparare le abitudini, per poi lasciare che succeda

L’obiettivo, come detto, è cambiare il nostro modo di agire. Un cambiamento esteriore non è mai duraturo se non preceduto da un cambiamento più profondo. 

Cambiare “in profondità” è difficile per vari motivi, oggettivi e soggettivi. Tuttavia, senza voler fare un trattato di psicologia, è certo che possiamo iniziare a cambiare agilmente, ad iterazioni successive, concentrandoci su risultati misurabili: risultati non performance!

Si perché il passo è breve. La ricerca di un risultato implica sperimentare, agire e spesso fallire. Il focus non è la certezza del risultato, non cerchiamo garanzie, il focus è il processo, il percorso che attraverso le sue innumerevoli sconfitte ci porta ad apprendere. Siamo soliti pensare che se sbagliamo allora stiamo fallendo. Questo è solo un modo di vedere l’evento negativo. E se iniziassi a pensare che sto semplicemente imparando un nuovo modo per non fare quella cosa? 

In quanti siamo qui dentro

Utilizzando la metafora del gioco del tennis e del giocatore che sta imparando, possiamo vedere la nostra mente come separata in due, i due sé come li definisce Gallwey. Il primo è quello giudicante, orientato alla performance e al successo, il suo obiettivo è quello di riuscire nell’intento ed è completamente rivolto verso l'esterno. E’ quella parte che è sempre attiva, che non si spegne e che genera quel “chiacchiericcio interiore” che continua a farci pensare a qualcosa in qualunque momento ma che non ci serve, se non per tenere impegnata la mente. E’  come un leader che non si fida dei suoi collaboratori anche se sa benissimo che questi sono in grado di svolgere i compiti a loro richiesti. Tuttavia, per mantenere il controllo organizza le loro attività, li monitora costantemente ed indica loro i passi da fare. 

Il secondo sé ha capacità naturali che possono essere attivate con un pò di allenamento, si basano sull’istinto e sulla registrazione di ciò che osservano. L’osservazione e l’imitazione sono le sue prerogative. 

Il primo sé non ha fiducia dell’altro è un controllore, non ama seguire delle strade nuove. In pratica è la nostra parte che ha bisogno di sicurezza, è assolutamente fragile e incapace di riconfigurarsi a fronte di eventi che lo portano a seguire strade nuove, ha il controllo ed è continuamente attivo. Ci trasmette un senso di sicurezza, lui sa come devono essere fatte le cose! In realtà pensa di saperlo perché spesso, pur provando e riprovando non gli vengono affatto bene!

Allora quando giochiamo a tennis e stiamo imparando, ad esempio, a fare il rovescio, ecco che il sé 1 cerca la regola, ripensa al manuale, controlla ogni muscolo al fine di far progredire il braccio così come la teoria insegna che dovrebbe essere e ricordandosi dei feedback avuti dagli allenatori. Siamo nella mente.

Nella stessa situazione, invece, il secondo sé sarebbe perfettamente in grado di cavarsela perché ha sperimentato diversi “rovesci”, alcuni con successo altri meno, ed ha registrato cosa fare nei casi di successo. 

Facendo un parallelismo con il leader, il leader controllore fa esattamente come il sé 1, mentre il leader che lascia spazio di sperimentare e di sbagliare non si muove su un piano mentale ma cerca nell’esperienza. Quest’ultima spesso arriva proprio dal team, che è competente. 

Il Giudizio

Accettato il fatto che siamo composti da più parti, come il divertente film della Disney Inside out ci ha fatto capire, come facciamo a scardinare il meccanismo  e a far emergere uno stile di leadership più trust?

Abbandonando il giudizio.

Un processo di trasformazione è costellato di successi ed errori. Il fatto che un evento sia a noi favorevole o meno è un giudizio soggettivo che va al di là del senso dell’evento stesso.

In un caso o nell’altro una parte di noi, quella che controlla, tenterà di decodificare l’evento per capire cosa modificare per ottenere un risultato favorevole la prossima volta.

A fronte di una particolare catena di eventi negativi si aggiungerà anche una sfiducia generalizzata che spesso viene rivolta agli altri. Questa stessa fiducia si trasformerà in breve tempo in profezia, instaurando un pericolosissimo ciclo che si auto-alimenta.

Possiamo identificare in questo comportamento lo stile di leadership altamente controllante che ha come effetto quello di disincentivare e deresponsabilizzare le persone. Il leader si sostituisce al cosiddetto follower che deve agire senza alcuna legittimazione e indipendenza.

Per questo leader disinnescare il giudizio vuol dire vedere la catena di eventi negativi non come tali e sollecitare una valutazione critica da parte di tutto il team, insomma come un giocatore di tennis che si guarda allo specchio per osservare gli errori nella sua impostazione.

Vuole anche dire aiutare il team ad osservarsi a fronte di eventi positivi, ripercorrere le azioni fatte e le sensazioni. Memorizzare soprattutto queste ultime possono aiutare le persone a ritrovare la motivazione a fronte di passaggi complicati nel progetto che stanno seguendo.

Lasciare spazio

Il passaggio successivo consiste nel lasciare spazio.

Il leader, che ora è riuscito a osservare e tenere da parte il giudizio,  dovrebbe osservare le persone del team per rendersi conto di quello che realmente possono fare.

E’ molto probabile che in questa fase osservi cose mai viste prima!

Il leader sta andando verso l'informazione e non viceversa. Sta andando a vedere la “catena di montaggio per osservare quanto le persone del team sono già in grado di organizzarsi e di compiere azioni non avendo alle spalle un “metronomo” umano, il leader. Se ci concentriamo totalmente su regole, principi del manifesto Agile, manuali e webinar otteniamo un’esperienza assolutamente teorica. Applichiamo una teoria solo per essere certi di avere tutto sotto controllo, invece dovremmo riscoprire un processo di apprendimento naturale.

Cambiare il modello di leadership

L’armonia tra i due sé si ha quando la mente è calma e focalizzata, Goleman lo definisce lo stato di flusso. Solo allora si può raggiungere una performance ottimale.  

Lo psicologo umanista Abraham Maslow ha chiamato tali momenti “esperienze culmine”. Nella sua ricerca sulle caratteristiche comuni tra le persone che hanno vissuto simili esperienze, riferisce le seguenti descrizioni: «Si sente più integrato» [i due sé diventano uno], «si sente un tutt’uno con l’esperienza», «si sente al culmine delle sue potenzialità», «pienamente funzionante», «a pieni giri», «senza sforzo», «libero da ogni blocco, inibizione, cautela, paura, dubbio, controllo,

autocritica, freno», «è spontaneo e più creativo», «più presente», «non si sforza, non ha bisogni, non ha desideri… si limita a essere».  In sintesi, “armonizzare i due sé” richiede che la mente venga rallentata. Calmare la mente significa meno pensiero, calcolo, giudizio, preoccupazione, paura, speranza, sforzo, rimpianto, controllo, agitazione o distrazione. La mente è quieta quando è ferma nell’ora e nel qui, e attore e azione sono un tutt’uno.

Let it happen

La parola chiave è lasciare. Bisogna quindi tagliare fuori il sé 1 comunicando direttamente con il secondo sé definito da Gallwey così come il leader per stabilire una nuova relazione tra pari deve riferisci al suo bisogno interiore di cambiamento. Questo è il motore del cambiamento che va trasmesso agli altri.

Il leader quindi cambiando il suo approccio cambia la comunicazione e lascia spazio anche agli altri.

Si instaura una relazione leader-leader dove, appunto, i componenti del team sono leader di se stessi in una relazione che ormai è passata la trust (fiducia).

Il cambiamento quindi si espande da cambiamento interiore del leader a uno esteriore, come fuori così è dentro potremmo dire utilizzando la legge di corrispondenza di Ermete Trismegisto.

Leadership e “Stato di Flusso” dei team

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Introduzione

I team sono gruppi di persone con uno stesso obiettivo. I team sono gestiti, nelle aziende, da diverse figure, in base alla modalità di lavoro adottata, ma in ogni caso le persone che costituiscono un team interagiscono, realizzando una interdipendenza “sociale” e non solo tecnica, i risultati dipendono da tutti e non solo dal singolo. Per raggiungere gli obiettivi prefissati e secondo Johnson & Johnson “Learning together and alone” [3] un team ha bisogno che tutti i suoi membri costruiscano relazioni di “qualità”.

In questo articolo vedremo quali sono le basi di interdipendenza sociale, quali sono gli elementi su cui lavorare per migliorarla e come deve agire il leader del team.

Emotional Intelligence and Team Work

Abbiamo detto che un team è un gruppo di persone, ma un gruppo di persone è un team? No, non sempre. Allora quali sono le caratteristiche che lo definiscono tale? Avere un comune obiettivo? Anche un gruppo di amici che gioca insieme (calcio,volley, ecc) ha un comune obiettivo, ma non necessariamente è un team.

Julio Velasco, ex allenatore della nazionale italiana di pallavolo, in un breve e bel talk che potete trovare su YouTube [3] ci spiega la differenza. In un team devono essere chiaramente definiti i ruoli e le interazioni tra di essi: le persone sono mosse da uno “spirito” comune. 

Lo “spirito” non è una competenza tecnica è una skill da sviluppare all’interno del team, da parte del leader, con tecniche che vedremo più avanti.

In un team si analizza di frequente il percorso: cosa va bene e cosa va male. Se qualcosa va male cerchiamo i problemi o cerchiamo i colpevoli? Ci sono meccanismi in grado di gestire i problemi e gli errori che intervengono al momento opportuno? Se ci sono, allora anche gli errori fanno parte di un processo di apprendimento; altrimenti i processi “errati” si ripeteranno.

Edison, noto inventore statunitense, nel tentativo di mettere a punto la lampadina ad incandescenza, dopo una cospicua serie di fallimenti disse a chi lo accusava di non essere riuscito nei suoi intenti: “Non ho fallito. Ho solamente provato 10.000 metodi che non hanno funzionato.

Quando parliamo di team non stiamo parlando solo di skill tecniche o di know-how derivato dall’esperienza professionale, i team per essere proattivi, positivi ed in evoluzione necessitano che le persone abbiano un buon livello di intelligenza emotiva al fine di creare quel “denominatore comune” di cui abbiamo appena parlato. 

Secondo Goleman [6] l’intelligenza emotiva è composta da 5 elementi: auto-consapevolezza, auto-regolazione, empatia, motivazione e social skills. Vediamoli in dettaglio. 

Self-awareness

L’auto-consapevolezza è la consapevolezza del proprio stato interiore inteso come insieme di emozioni e di vissuti. L’abilità di essere consci dei meccanismi dei nostri pensieri. Una migliore consapevolezza di noi stessi porta, di riflesso, a capire meglio gli altri.

Self-Regulation

E’ l’abilità di gestire le emozioni per facilitare l’avanzamento del progetto assegnato al team.

Nei conflitti, quando si è sotto pressione e con un alto livello di stress è importante auto-regolarsi al fine di mantenere un buon clima di lavoro.

Motivation

La motivazione consente di aiutare i membri meno esperti del team a contribuire al raggiungimento dell’obiettivo. Come vedremo le emozioni sono contagiose e la capacità di “contagiare” la motivazione porta il team a risultati decisamente migliori.

Empathy

Secondo Goleman l’empatia è la capacità di comprendere e di interpretare le emozioni degli altri, nel caso di un team quelle dei colleghi, capire gli altri punti di vista derivanti dai vari vissuti personali.

Social Skills

Le social skills ci servono per cogliere le energie del gruppo in modo sistemico, interagire con altri membri del team, identificare i conflitti in modo consapevole e gestire le tensioni che hanno un impatto negativo sul progetto su cui il team è focalizzato. Attraverso queste skills riusciamo a cooperare e costruire un pensiero positivo e collaborativo all’interno del team.

La comunicazione invisibile nel team

La figura centrale del team è il leader che agisce come motivatore e coach del team. I cinque elementi dell’intelligenza emotiva sono il linguaggio non verbale del team. Attraverso questa forma di comunicazione il leader può mantenere il team in uno “stato di flusso” che porta tutti i componenti a “contagiarsi emotivamente” e a lavorare in un clima decisamente più proficuo. 

 

La ricetta per perseguire questo risultato è quella di avere un team composto da persone che lavorano agli obiettivi che l’azienda ha deciso in un ambiente altamente comunicativo, con le emozioni messe a fattor comune. 

L’esecutore materiale di questa ricetta è il leader che deve quindi conoscere molto bene tutti questi ingredienti.  

Nell’articolo scritto da Buckingham e Goodall, The Power of Hidden Teams, [1] leggiamo  come ricerche degli anni 80 e 90 dello scorso millennio, portate avanti dalla Gallup Organization (una società americana di analisi e consulenza),  per avere individui motivati è necessario avere obiettivi chiari, sicurezza del futuro e human attention da parte del leader nei confronti del team.

Con l’avvento dell’Agilità abbiamo assistito all’emergere di diverse metodologie per la gestione dei team in un’ottica di leadership diffusa. Le persone sono, in questo mindset, poste al centro e quindi riconosciute come elemento fondante di tutto il processo di cambiamento, ne consegue che il loro benessere è fondamentale.

Possiamo quindi porci una domanda fondamentale. 

Cosa vuol dire avere team che “stanno bene”?

Vuol dire creare una situazione di “risonanza” emotiva all’interno di un gruppo di persone al fine di mantenere uno stato di benessere tale da avere conseguenze positive su ciò che si sta facendo, sul progetto, sul singolo task, nei rapporti tra i componenti del team.

Appartenere ad un team raddoppia già di per sé il livello di coinvolgimento [1] infatti le persone si sentono “di appartenere” a qualcosa di tangibile si essere utili direttamente a qualcuno che possono vedere, anche se da remoto, e con cui possono confrontarsi.

Far parte di un team vuol dire essere in una micro-realtà che non necessariamente deve allinearsi alla cultura aziendale. I team sono anche luoghi in cui “ci si lamenta” e in cui si definiscono dinamiche interne non sempre allineate con l’esterno, ma comunque efficienti e funzionanti.

Esaminiamo quindi quali sono i key factors per avere un team in un “buon stato di salute” e soprattutto cosa deve fare un leader per contribuire a avere team di questo tipo.

Ci sono diversi aspetti che possiamo riassumere in questi punti:

  1. Creare nel team ciò che Goleman chiama lo stato of flusso (flow state)
  2. Il leader deve trasmettere fiducia (trust)
  3. Human attention,(sentirsi visti)
  4. Il lavoro prima della location (smart work, family work)

The Flow State

Lo stato di flusso è un concetto spiegato molto bene da Daniel Goleman (psicologo, giornalista e scrittore statunitense) in un bellissimo video che potete trovare su Youtube “the art of managing with emotions”. Indipendentemente dall’attività, se una persona è in questo stato la sua attenzione è totalmente focalizzata su ciò che sta facendo, è flessibile rispetto agli imprevisti, attiva tutte le skill ai massimi livelli e ...si sente bene!

In questo stato le persone reagiscono molto bene all’imprevisto, non in modo “resiliente” concetto a mio avviso da superare, ma in modo antifragile. In altre parole l’imprevisto non ci porta a costruire una corazza ancora più forte o a farci “rialzare” in un modo più determinato, ma va utilizzato come evento, per guidare il cambiamento. L’antifragilità prospera nel disordine e ci spinge a costruire sistemi differenti o modalità di lavoro/comportamento che siano più adeguate alle circostanze.

L’arte della leadership quindi è quella di creare i presupposti per tenere le persone nel loro “stato migliore” per lavorare bene ed essere sereni. Troppo lavoro, poco tempo e poca motivazione vanno nella direzione opposta. Come fare quindi? Secondo Goleman utilizzando uno strumento molto potente (che vedremo tra poco) e seguendo alcune linee guida:

  • chiarire gli obiettivi
  • fornire feedback frequenti
  • apprendimento continuo
  • assegnare i task alle persone in base alle loro competenze tecniche
  • assegnare i task considerando il livello personale di ingaggio (faccio quello che mi chiedi perché mi interessa)

Obiettivi chiari sono alla base non solo di una buona gestione dei team ma anche del progetto. Stiamo attenti a non confondere l’obiettivo con la strada da percorrere. L’obiettivo è il fine, ma i percorsi possono essere diversi. Dipendono non solo dal framework di progetto ma anche dai singoli “gestori di progetto”. Cambiare l’obiettivo del progetto destabilizza e cambiarlo in continuazione porta a un disorientamento che, se ripetuto, demotiva le persone.

Durante il percorso per raggiungere l’obiettivo è importante fornire dei feedback altrettanto chiari e continui ai membri del team. Il feedback comunica implicitamente ad una persona il messaggio “ti vedo” ho visto ciò che hai fatto.

L’apprendimento continuo non vuol solo dire essere al passo con la tecnologia. Qui si parla di apprendimento tecnico ed emotivo, si parla quindi anche di momenti in cui si chiariscono i conflitti o ci si confronta sulle modalità con le quali si approccia al problema. Investire in formazione permette di avere persone più motivate e ricollocabili su diversi progetti.

Infine l’assegnazione dei task. In genere segue il ragionamento: assegno questo task a chi ha le skills giuste per portarlo a termine nel tempo richiesto. C’è però un secondo parametro da valutare, il livello personale di ingaggio.

Una persona potrebbe essere il massimo esperto di una determinata tecnologia, ma la utilizza da anni. Risolve i problemi in un attimo e i nuovi sviluppi li porta a termine centrando sempre l’obiettivo. Ci siamo mai chiesti se è felice di utilizzarla ancora? E se volesse lavorare con altre skills tecnologiche, magari già conosciute? Stiamo quindi mettendo l’azienda al centro o la persona?

I task vanno, in conclusione, assegnati in modo chiaro e ogni persona del team deve capire bene cosa ci si aspetta da lui/lei.

Ma Goleman ci ha “promesso” un utile strumento, quale?

Lo strumento a disposizione del leader è il meccanismo dei neuroni specchio che ci connettono in modo silente alle altre persone e che attivano un “dialogo” non verbale. 

I neuroni specchio

La scoperta dei neuroni specchio risale a fine anni 90 e ha evidenziato come su alcune specie di scimmie (macachi) si attivano le stesse aree cerebrali sia compiendo un’azione che osservandola in un proprio simile. Negli anni successivi sono stati fatti ulteriori esperimenti per ampliare la conoscenza sui neuroni specchio nelle emozioni e anche agli esseri umani. E’ stato quindi dimostrato, ad esempio, che quando osserviamo certe emozioni o le proviamo, le stesse zone neurali si attivano. 

Questa scoperta è molto importante per chi deve gestire dei team. Vuol dire, ad esempio, che se io sono un leader verbalmente aggressivo, attiverò nelle persone del team gli stessi neuroni che io in quel momento ho attivi, inducendo reazioni analoghe al mio comportamento (aggressività) o un silenzio legato alla conseguente soggezione che provoco nei membri del team. 

Il leader quindi diventa ancora più centrale. 

Non è solo importante ciò che fa, ma come lo fa, come lo dice, quale gestualità e quale emozione porta nel gruppo.

I neuroni specchio sono il meccanismo, o come dice Goleman, l’arma segreta che un leader ha a disposizione per creare la connessione sul piano emotivo con tutto il team. Per questo si dice che le emozioni sono “contagiose”. 

In questo senso si parla di “risonanza emotiva”. La frequenza di risonanza di un oggetto è una caratteristica fisica che ci permette di far vibrare l’oggetto anche senza toccarlo. In altre parole, se emetto un suono che fa vibrare un bicchiere di vetro, quando raggiungo la frequenza di risonanza propria di quel bicchiere, le vibrazioni aumenteranno sempre di più. La frequenza di risonanza ha quindi il potere di indurre ed aumentare lo stato di vibrazione di un oggetto.

Risonanza emotiva è quindi quella capacità, che dovrebbe appartenere al leader di un team, di far “vibrare” le persone sulle corde emotive che si stanno stimolando. Non si tratta solo di essere e mostrarsi felici per indurre felicità, bisogna farlo in un modo più sottile, andando ad intercettare le “frequenze” di risonanza di ciascun membro al fine di ottenere questo effetto.

Il leader deve trasmettere fiducia (trust)

La fiducia è una qualità che il leader deve conquistare a livello profondo. Non deve essere un generico senso di fiducia ma la sensazione che il leader abbia ben presente le caratteristiche di ogni team member e che le sappia utilizzare nell’interesse, soprattutto, della persona.
“Il mio team leader conosce bene ciò che mi appassiona e possibilmente organizza il mio lavoro intorno a ciò”. 

La human attention (sentirsi visti)

Questo tema è molto collegato al precedente, al trust verso il leader. E’ applicabile quando i team non sono eccessivamente numerosi perché l’attenzione si traduce in parlare con le persone e non solo di tematiche lavorative, ma anche di soft skills. Capire oltre la superficie le persone vuol dire assegnare, in una fase operativa, i task in base ai desideri di queste persone. Capire chi preferisce lavorare in remoto e chi in ufficio. 

Lavoro in presenza o lavoro da remoto?

Molti ancora oggi ricorderanno l’episodio del 2013 in cui la CEO di Yahoo Marissa Mayer richiamò tutti i lavoratori a cui era stato concesso il lavoro da remoto. 

I sostenitori del lavoro in presenza dicono che è più facile mettersi in una stanza e parlarsi insieme (vedi gli standup meeting Agili) oppure le tecniche di programmazione che prevedono di utilizzare due programmatori che lavorano su uno stesso pc.

L’avvento del Covid ha un po’ scoperto le carte e ci ha fatto forzatamente essere antifragili. Abbiamo scoperto moltissimi tool virtuali di comunicazione e di condivisione di successo. 

Quindi è possibile lavorare e bene da remoto? Senza generalizzare a tutti i ruoli e a tutti i lavori, direi di sì. Anche nell’articolo “The power of hidden teams” [1] viene riportato uno studio effettuato su 19 paesi (1000 persone per ogni paese) sul tema del coinvolgimento sul lavoro: il 23% delle persone intervistate lavorano da casa e sono più coinvolte di quelle che lavorano in ufficio. Più della metà di questi lavoratori da remoto non si sentono isolati, ma parte di un team. Al contrario, solo il 17% dei lavoratori “in presenza” (in ufficio) si sentono coinvolti nel team e nel progetto.

Da questo studio emerge quanto abbiamo scritto nei paragrafi precedenti. Utilizzando, quindi, i tool virtuali che la tecnologia ci mette a disposizione possiamo lavorare da casa e l’azienda stessa ne può trarre beneficio (si vedano gli studi e le proposte di https://www.familyworking.it).

Il problema, quindi, non è il “dove” ma il “come”.
Il leader può gestire e motivare le persone anche da remoto, l’intelligenza emotiva non richiede la co-locazione. Sono le abitudini mentali “euristiche” e inconspevoli, quelle che Kahneman definisce i pensieri veloci [8], che ci portano ad attuare modelli spesso automatici e non conformi alla mutevole realtà.

Team Leader Estroversi e Introversi

Il leader diventa quindi un motivatore, un coach, una persona che mette al centro le persone e le loro dinamiche. Ascolta e fa sentire accolte le esigenze di ognuno, sa di poter comunicare con linguaggi non verbali e, anzi, li utilizza con attenzione.

Uno  degli aspetti che il leader deve considerare è descritto nell’articolo “Introverts, Extroverts, and the Complexities” [2].

I team, e quindi i leader vengono suddivisi in introversi ed estroversi attraverso appositi questionari finalizzati a capire quali sono le loro caratteristiche di base.

Team leaders estroversi hanno presa su team che necessitano di una guida forte che porti la vision. Trattasi, infatti di leader assertivi che indicano la direzione in modo chiaro e lavorano meglio con team introversi.

Se però un leader estroverso si trova a gestire un team proattivo, energico e che prende iniziative (team estroverso), allora il suo lavoro non è altrettanto efficace.

In questi casi sono i team leader introversi ad avere la meglio, poiché, con le loro caratteristiche, attivano l’ascolto e l’empatia, entrambe caratteristiche più “sviluppate” rispetto ai leader estroversi.

Il leader attiva un moto “da” anziché un moto “per”, ovvero riesce a motivare le persone affinché “partano” per un obiettivo che hanno identificato anziché impacchettare un obiettivo da far poi perseguire al team.

Il leader incoraggia le domande e gestisce i fallimenti rielaborandoli al fine di attuare il “miglioramento continuo” del team e del progetto.

Conclusioni

Team di successo, persone nello stato di flusso, intelligenza emotiva sono concetti, come abbiamo visto, strettamente correlati come anche Yost e Tucker [7] evidenziano e sono più importanti delle competenze tecniche.

Abbiamo visto che i team hanno codici comunicativi di gruppo tanto più sviluppati quanto i singoli componenti posseggono alcune soft-skills sviluppate, come l’auto-consapevolezza.

Abbiamo, quindi, esplorato lo “stato di flusso” che mantiene le persone ad alti livelli di consapevolezza perché è in grado di “espandere” lo stato emotivo.
In questo stato le persone sono “felici” e anti-fragili.

Infine, abbiamo visto gli altri key factors che un leader deve sviluppare all’interno di un team.

Da queste analisi emerge chiaramente che per avere un team performante non possiamo puntare solo sull’eccellenza delle skills tecniche.
Il leader, attraverso l’arma segreta dei neuroni specchio, deve mantenere un flusso comunicativo, una human attention ed un livello di trust tali da generare in ciascuna persona lo stato in cui può stare bene e trovarsi bene nel team. Si crea così una sorta di “social brain”, da altri definita “intelligenza collettiva”, che porta le persone a sentirsi parte di un team e non di un gruppo.

Riferimenti Bibliografici

[1]  Marcus Buckingham, Ashley Goodall. The Power of Hidden Teams, 2019

[2] Francesca Gino. Introverts, Extroverts, and the Complexities of Team Dynamics, 2015  

[3] Johnson, D.W., & Johnson, R.T. Learning together and alone: Cooperative, competitive, 1999

[4] Julio Velasco "La differenza tra gruppo e squadra

 

[5] D. Marquet. Turn the ship around, 2015

 

[6] D. Goleman. Intelligenza Emotiva, BUR, 2011

 

[7] Yost, C.A., & Tucker, M.L. Are effective teams more emotionally intelligent? 2000

 

[8] Daniel Kahneman. Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2017

Stato di Flusso e Team Agili

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Introduzione

Non occorre essere uno Scrum Master per occuparsi di team Agili.

Varie figure nelle aziende gestiscono team, in base alframework o al modello di gestione di persone/progetti che si utilizza.

Una volta chiarito cosa intendiamo per team, la domanda successiva è: come possiamo gestirlo al meglio?

Ma cosa vuol dire "meglio"? Vuol dire più performante per l'azienda oppure la risposta può essere centrata sulle persone che compongono il team?

Lo Stato di Flusso

Goleman definisce lo stato di flusso come uno stato in cui le persone, al di là del contesto in cui operano, sono felici, antifragili, e concentrate al massimo su ciò che stanno facendo. Certo è uno stato che non può essere indotto dalla proprie competenze tecniche o da direttive di responsabili di vario livello. Il leader, ovvero colui che gestisce il team, dovrebbe creare le condizioni che portano le persone ad entrare in questo stato.

Non stiamo parlando di qualche strana tecnica esoterica e neanche di mettere in una stanza il team con uno psicologo. Stiamo solo formalizzando il fatto che lavorare in uno stato di "benessere" ci rende più produttivi e più inclini a gestire ed accettare il cambiamento.

Cosa deve fare il leader

E' la domanda centrale. Quali condizioni deve "settare" il leader? Quali atteggiamenti deve tenere e quali sono i linguaggi da utilizzare?

Perchè un leader influenza, col suo comportamento, quello dei membri del team? 

Dabbiamo mettere insieme alcune competenze per rispondere: alcuni punti del manifesto sull'Agilità, la definizione di antifragilità, le neuroscienze, e magari un pò di pallavolo....

Approdondirò tutti questi temi in un corposo articolo in pubblicazione su questo sito nei prossimi giorni.

Stay tuned!

Leadership e spiritualità

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Recentemente, un filone americano di studi ha lanciato l’idea di valorizzare il "capitale spirituale" come variabile fondamentale per la produttività delle organizzazioni aziendali e nei luoghi di lavoro.

Di spiritualità se ne parla poco e spesso male, confondendo la spiritualità con la religione. In verità, quando intratteniamo un dialogo costante e fecondo con la nostra anima e ci prendiamo cura dei suoi bisogni la nostra vita prende una direzione diversa. Del resto Gardner, con la teoria delle intelligenze multiple, e Goleman, con il paradigma dell’intelligenza emozionale, hanno già aperto la strada a visioni diverse del nostro modo di farci strada nella vita. L’intelligenza spirituale è la capacità di ascolto dell’anima, quella marcia in più che trasforma la motivazione in passione, la volontà in vocazione, la fiducia in fede e la capacità in responsabilità. Perché, dunque, non utilizzarla come driver nei modelli di leadership?

S. Covey, ne L’ottava regola mette a confronto la leadership come posizione (autorità formale) e la leadership come scelta (autorità morale).

La dicitura "autorità morale" è - di fatto - un ossimoro che racchiude tutta la potenza delle dicotomie generative: autorità morale significa ottenere influenza seguendo principi etici. Autorità morale significa uno stato di presenza, guidato dallo "spirito di servizio" al di sopra di sé stessi.

Quando leader con autorità formale o potere, dato dalla loro posizione, si rifiutano di usarlo se non come ultima risorsa, aumentano la loro autorità morale. Infatti, mettono da parte l’ego e, al suo posto, utilizzano qualità come persuasione, gentilezza, empatia e, in breve lealtà.

Otto Scharmer con la sua U-Theory (una delle metodologia più innovative nel panorama del change management) ci insegna a co-progettare soluzioni efficaci per le organizzazioni, in un panorama complesso, come il mercato del lavoro, caratterizzato da volatilità, incertezza e ambiguità.

Secondo Scharmer la differenza la fa il punto di consapevolezza da cui hanno origine le nostre azioni. E leadership diventa allora la "capacità di spostare il luogo interno da cui operiamo".

Il modo in cui si presta attenzione dà forma al dispiegarsi della realtà sociale attorno a noi, perché l’energia segue l’attenzione.

Ovunque poniamo attenzione come leader, innovatori, genitori, agenti del cambiamento, lì si indirizzerà l'energia del sistema che ci circonda, inclusa la nostra stessa energia.

La chiave della grande leadership risiede, quindi, nella capacità di restare concentrati.

Purtroppo, però, nostra abitudine a pensare per pensare – osserva Kabat Zinn, il fondatore della Mindfulness - ha, tra le varie conseguenze, quella di espellere dalla mente (che qui intendiamo come il nostro campo di coscienza) alcune qualità, in primis, la consapevolezza. Noi tutti tendiamo a sfuggire la consapevolezza per rimanere attaccati ad una visione fasulla del mondo, incentrata su un punto di vista egoico.

La visione del leader oggi, invece, non può più essere quella del capo che si mette davanti al gruppo e lo guida verso gli obiettivi, ma deve necessariamente uscire dalla logica di pensiero ego-centrata, per entrare in uno stato di consapevolezza eco-sistemica e portarsi al passo con la realtà del nostro mondo globalmente interconnesso. Diventa allora fondamentale dotarsi di strumenti di crescita personale che consentano al leader di attivare un nuovo paradigma di pensiero con cui lavorare prima su di sé e poi nel gruppo (di cui lui stesso fa parte). Il nuovo mind-set di competenze implica una qualità di ascolto e di presenza che consentano al leader di percepire le sfide del futuro, di ispirare il gruppo, di creare nuove possibilità di sviluppo.

La leva economica, infatti, non è più sufficiente a spiegare il benessere soggettivo e la felicità è veramente tale solo nella reciprocità. Non è un caso che nel 2006 l’Oms abbia aggiunto alle condizioni del benessere anche quello spirituale, di cui già ci parlava Maslow come ultimo gradino in cima alla piramide dei bisogni.

Ogni uomo deve decidere se camminerà nella luce dell'altruismo creativo o nel buio dell'egoismo distruttivo Martin Luther King

Nel mondo di oggi, in rapida e drammatica evoluzione, l'affermazione di sé dipende sempre più da come interagiamo con gli altri. Lo dimostra Adam Grant, giovane e brillante docente alla Wharton School, che nel libro Più dai più hai traccia tre profili che corrispondono ad altrettanti stili di azione: il giver (colui che antepone il dare al ricevere), il matcher (colui che, nel rapporto dare-avere punta al pareggio), il taker (colui che prende e basta):

I givers di successo sono quelli che hanno a cuore sia gli interessi degli altri che i propri,

diventando strategici nel modo in cui donano. Sono generosi con altri givers o matchers, in modo da massimizzare i risultati. Donare è un comportamento virale, ed i givers, mandando energia positiva nel loro network, attraggono nel tempo persone simili a loro, creando quindi una rete ricca di opportunità condivise con tanti.

Quali sono, allora le qualità che può coltivare un leader che vuole portare spiritualità e benessere all'interno della sua organizzazione?

Inanzitutto la gentilezza.

Oggi il termine “gentilezza” abbraccia una gamma di sentimenti descritti con parole diverse: solidarietà, generosità, altruismo, benevolenza, umanità, compassione, pietà, empatia. In passato questi sentimenti erano conosciuti con altri nomi: philantropia (amore per l’umanità) e caritas (amore per il prossimo). I significati cambiano, ma tutti questi termini rimandano all'idea di “cuore aperto”, cioè essere bendisposti verso gli altri.

In secondo luogo l’ascolto. Secondo Scharmer ci sono 4 livelli di ascolto 1. Ascolto di downloading (ascoltare quel che ci si aspetta di sentire) 2. Ascolto fattivo (prestare attenzione a ciò che ci sorprende) 3. Ascolto empatico (entrare nel punto di vista dell’altro) e 4. Ascolto generativo (connettersi con il futuro, lasciando andare il passato).

L’arte della leadership consiste, allora, nel facilitare il passaggio da un tipo di ascolto ad un altro.

Ed infine la fiducia, intesa come sentimento di base dell’anima, sulla quale si può fondare una vita attiva, dedita al bene e alla giustizia. L’anima è il tutto, è libera, inclusiva e già perfetta così com'è, senza bisogni e senza desideri.

Nella visione egoica si generano energie conflittuali, perché predominano barriere e inquinanti. La visione del mondo animica, invece, crea una campo di energie positive e di relazioni armoniche che possono facilmente divenire contagiosi e contribuire fattivamente a generare benesssere e crescita feconda in qualunque organizzazione.

Meditate, gente, meditate...

Trovate questo articolo anche sul mio blog, Allena i Pensieri.